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Agricoltura e clima, un rapporto a tutto tondo

Il Libro bianco curato dal Mipaaf esamina i rapporti tra cambiamenti climatici e sviluppo rurale

Credit: Pxhere - CC0 Public Domain
Credit: Pxhere – CC0 Public Domain

Nei prossimi decenni i segnali di cambiamento climatico (cc) continueranno a manifestarsi e i climatologi che lavorano per le Nazioni Unite prevedono aumenti delle temperature globali compresi tra due e sei gradi. Quale di questi scenari si avvererà dipende in larga misura dall’efficacia degli sforzi di mitigazione messi in campo per ridurre o eliminare del tutto le emissioni di gas serra. Nel caso si riesca a invertire la rotta e ad impedire ulteriori accumuli di gas serra in atmosfera allora dovrebbe realizzarsi lo scenario più ottimistico, se invece questi sforzi risultassero vani e tutto andasse avanti come ora il mondo che lasceremo ai nostri nipoti potrebbe essere di sei gradi più caldo rispetto a quello attuale, e davvero complicato da gestire, forse impossibile. In ogni caso il clima continuerà a cambiare ed è necessario affrontare la situazione in modo razionale, con processi di adattamento a medio e lungo termine.

In questo quadro si è svolta a Roma lo scorso 20 settembre 2011 la presentazione del Libro Bianco “Sfide ed opportunità dello sviluppo rurale per la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici” prodotto in collaborazione tra Mipaaf, Inea, Ismea, Cra e altri numerosi soggetti scientifici e operativi, tra cui Arpa Emilia-Romagna. Il libro per ora è disponibile come file pdf ma verrà presto stampato a cura di Ismea.

Durante il suo intervento introduttivo Riccardo Valentini, università di Viterbo, ha presentato dati scientifici sulle emissioni globali di gas serra, di cui l’agricoltura globale complessivamente emette circa il 15% del totale. Il ruolo dell’agricoltura italiana in questa partita è comunque inferiore rispetto a quello di altri paesi (secondo Ispra, solo il 7% delle emissioni serra nazionali – che totalizzano ca. 490 Mt – sono di origine agricola) ma potrebbe comunque essere notevole se si puntasse alla mitigazione (diminuzione delle emissioni). Tanto per fare un esempio un chilogrammo di pomodoro prodotto in serra può arrivare ad emettere ben tre kg di anidride carbonica contro i cinquanta grammi di quello prodotto in campo. L’Italia non ha in passato (protocollo di Kyoto) inserito l’agricoltura tra i settori con possibilità di acquisire crediti di carbonio, Valentini sostiene però la necessità di rivedere questa posizione. Per la mitigazione in agricoltura bisogna implementare tecnologie e innovazione nella direzione della sostenibilità, il libro bianco tenta di conteggiare gli effetti delle pratiche, il cui potenziale potrebbe essere di 6 Mt. A titolo di paragone le foreste italiane “valgono” in questo senso 16,5 Mt ma in un prossimo futuro potrebbero arrivare a stoccarne 22, agendo opportunamente su classi di età e prelievi.

Camillo Zaccarini dell’Ismea ha invece trattato di strategia europea clima-energia (il cosiddetto pacchetto 202020) e di Pac sottolineando come i trattati di Lisbona prevedano la questione climatica come assolutamente importante e trasversale. Nella riforma della Pac in effetti si parla della mitigazione e adattamento e proprio questo mese saranno rese pubbliche le proposte di miglioramento in discussione fino al 2012, mentre dal 2013 si attueranno i piani di sviluppo nazionali. I tre diversi “pilastri” in cui sarà articolata la Pac hanno tutti ampio spazio per misure tese sia alla mitigazione che all’adattamento, resta comunque chiara la necessità di una strategia nazionale per il clima di qui al 2020.

Guido Bonati dell’Inea ha rimarcato il ruolo dell’adattamento, in quanto l’Italia secondo tutte le proiezioni disponibili sarà molto soggetta agli impatti dei cc insieme al resto del Mediterraneo. Non è così per tutti i paesi europei, anzi alcuni si attendono vantaggi dal riscaldamento (per esempio la Svezia, che sta cambiando le essenze forestali per approfittare della nuova situazione termica). In Italia la sensibilità al riscaldamento climatico è acuita dalle piccole dimensioni aziendali e anche se l’agricoltura nei secoli è abituata al cambiamento ma per la portata che hanno i fenomeni attuali richiedono un adattamento costante e anticipato. Comunque anche in Italia i cambiamenti del clima potrebbero costituire una opportunità e non solo una minaccia. In generale l’adattamento costa, assumendo una linea di base senza cc bisogna valutare i danni potenziali senza adattamento, e i costi dell’adattamento devono servire a diminuire drasticamente questi impatti e i danni connessi. è necessario combinare politiche di mitigazione e adattamento, e il clima deve entrare in tutte e politiche nazionali, ricollegandosi a quelle internazionali. Noi europei diamo per scontato che l’azione verso l’adattamento agricolo sia pubblica, c’è però dibattito in sede Ocse dove gli Usa sostengono che sono i soggetti privati opportunamente informati che devono scegliere come adattarsi. In ogni caso le politiche devono aiutare i diversi aspetti deboli (sociali, economici e naturali) e potenziare l’adattabilità rurale. Bonati ha anche proposto di compensare gli agricoltori per le attività di mitigazione portando l’esempio del Portogallo, dove c’è un sistema di riconoscimento di crediti di carbonio, mentre in Australia c’è la Carbon farming initiative (gli australiani hanno però il 23% di emissioni di origine agricola). Nel commentare questa relazione Ammassari del Mipaaf, ha riferito delle impressionanti politiche di adattamento in corso di sviluppo in Olanda, suggerendo che anche noi dovremmo fare lo stesso.

, ex direttore dell’Ucea e responsabile del progetto scientifico Agroscenari, e Raffaele Dono economista agrario della Tuscia, oltre a raccomandare le attività di ricerca multidisciplinare con il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati hanno evidenziato che la sfida di Agroscenari è quella di mettere insieme le scale temporali climatologiche di lungo periodo con quelle dell’economia agraria che invece sono più brevi, scorporando la normale variabilità climatica dai segnali di lungo periodo. Entro dieci o vent’anni le tecnologie e le filiere sono destinate a cambiare drasticamente o anche a scomparire come è già accaduto nel recente passato, se andiamo troppo avanti con le proiezioni climatiche rischiamo di avere delle distorsioni, poi c’è un problema politico che ha respiro di breve termine e che è basato sul cofinanziamento (le imprese cofinanziano solo soluzioni che ritengono valide). I cambiamenti devono essere percepiti come già in atto e rilevanti per generare interesse e cofinanziamento su misure di adattamento al cc. Agroscenari sta cercando di valutare proprio questo tipo di situazioni, che già stanno creando svantaggi importanti per come impattano sulle tipologie territoriali. I modelli da usare in questi casi sono bioeconomici e rappresentano l’azione in condizioni di incertezza, con contromisure che costano tanto più quanto aumenta l’incertezza. I cc stanno aumentando la variabilità dei regimi climatici e termopluviometrici e stanno accrescendo il costo di prendere contromisure nella gestione delle imprese. Le politiche di adattamento devono aumentare l’efficienza delle imprese e questo va a beneficio della resilienza, i margini di miglioramento ci sono e sono enormi non solo nelle aziende piccole ma anche in quelle grandi. In questo senso assistenza tecnica (per esempio come audit aziendale) e formazione degli agricoltori sono elementi da fornire assolutamente.

Per quanto riguarda la zootecnia, argomento trattato da Alessandro Nardone, UniTuscia, la mitigazione delle emissioni si gioca sull’alimentazione per il contenimento del metano, gestione delle deiezioni (la cui copertura può eliminare il 100% delle emissioni) e gestione della mandria (con selezione sui caratteri di fertilità, longevità e metanogenesi). L’adattamento prevede il miglioramento delle stalle con ventilazione e raffrescamento, razione alimentare, selezione di animali che sopportano meglio il caldo, sistemi previsionali di allerta delle ondate di calore. Intervenendo su una minoranza di grandi allevamenti si riesce a intercettare una grossissima percentuale delle emissioni (fino all’85%). Classificare gli allevamenti in termini di emissioni e fare un albo degli allevatori “virtuosi” può essere un forte stimolo al miglioramento degli altri. E bene sapere che emettendo metano una sola vacca da latte genera l’equivalente di 3,3 tonnellate equivalenti di CO2 ogni anno (se fa 25 litri di latte al giorno sono 360 g/litro).

Il prof. Santilocchi, università di Ancona, ha parlato di tecniche agronomiche conservative, finanziate con 400 euro/ha in Veneto, che prevedono la copertura perenne del suolo con colture o residui colturali in superficie per proteggere il terreno e favorire il ritorno dei lombrichi, con opportuni avvicendamenti colturali, semine senza lavorazioni di qualunque genere o lavorazione minima fino a 20-30 cm senza rivoltare il suolo, con recupero della stratificazione naturale del terreno e inerbimenti delle colture arboree. I vantaggi ambientali sono minore erosione, maggiore ritenzione d’acqua, aumento della sostanza organica, minore evaporazione (effetto pacciamante), minore crepacciatura dei suoli argillosi, minore lisciviazione di inquinanti. Vantaggi economici per risparmi di carburante, minore usura delle attrezzature. Servono però attrezzature speciali, la gestione delle infestanti più complessa, almeno inizialmente, con un periodo di transizione di un quinquennio, se non si rovescia più il suolo ad ogni modo la pressione delle infestanti tende a diminuire.

L’agricoltura quindi può e deve fare molto in questo quadro, da una parte migliorando l’uso delle risorse, terra acqua energia e concime devono essere usate in maniera conservativa e più efficiente (meno risorse per unità di prodotto) puntando alla diminuzione delle emissioni di gas serra e selezionando varietà e colture che meglio si adattino alle prevedibili nuove condizioni climatiche (più calore e meno acqua a disposizione, maggiore variabilità climatica). Un robusto sistema di assistenza tecnica che tenda a sostenere questi sforzi è altresì essenziale, un sistema nel quale l’agrometeorologia gioca un ruolo sempre più evidente. (di Vittorio Marletto, Arpa Emilia-Romagna e pianetaserra.wordpress.com)

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Giornalista scientifica. Da sempre appassionata di hi-tech e innovazione energetica, ha iniziato a collaborare alla testata fin dalle prime fasi progettuali, profilando le aziende di settore. Nel 2008 è entrata a far parte del team di redattori e nel 2011 è diventata coordinatrice di redazione. Negli anni ha curato anche la comunicazione e l'ufficio stampa di Rinnovabili.it. Oggi è Caporedattrice del quotidiano e, tra le altre cose, si occupa quotidianamente delle novità sulle rinnovabili, delle politiche energetiche e delle tematiche legate a tecnologie e mercato.


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Batterie al sodio allo stato solido, verso la produzione di massa

Grazie ad un nuovo processo sintetico è stato creato un elettrolita di solfuro solido dotato della più alta conduttività per gli ioni di sodio più alta mai registrata. Circa 10 volte superiore a quella richiesta per l'uso pratico

Batterie al sodio allo stato solido
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Batterie al Sodio allo Stato Solido più facili da Produrre

La batterie allo stato solido incarnano a tutti gli effetti il nuovo mega trend dell’accumulo elettrochimico. E mentre diverse aziende automobilistiche tentano di applicare questa tecnologia agli ioni di litio, c’è chi sta percorrendo strade parallele. É il caso di alcuni ingegneri dell’Università Metropolitana di Osaka, in Giappone. Qui i professori Osaka Atsushi Sakuda e Akitoshi Hayash hanno guidato un gruppo di ricerca nella realizzazione di batterie al sodio allo stato solido attraverso un innovativo processo di sintesi.

Batterie a Ioni Sodio, nuova Frontiera dell’Accumulo

Le batterie al sodio (conosciute erroneamente anche come batterie al sale) hanno conquistato negli ultimi anni parecchia attenzione da parte del mondo scientifico e industriale. L’abbondanza e la facilità di reperimento di questo metallo alcalino ne fanno un concorrente di primo livello dei confronti del litio. Inoltre l’impegno costante sul fronte delle prestazioni sta portando al superamento di alcuni svantaggi intrinseci, come la minore capacità. L’ultimo traguardo raggiunto in questo campo appartiene ad una ricerca cinese che ha realizzato un unità senza anodo con una densità di energia superiore ai 200 Wh/kg.

Integrare questa tecnologia con l’impiego di elettroliti solidi potrebbe teoricamente dare un’ulteriore boost alla densità energetica e migliorare i cicli di carica-scarica (nota dolente per le tradizionali batterie agli ioni di sodio). Quale elettrolita impiegare in questo caso? Quelli di solfuro rappresentano una scelta interessante grazie alla loro elevata conduttività ionica e lavorabilità. Peccato che la sintesi degli elettroliti solforati non sia così semplice e controllabile. Il che si traduce in un’elevata barriera per la produzione commerciale delle batterie al sodio allo stato solido.

Un Flusso di Polisolfuro reattivo

É qui che si inserisce il lavoro del team di Sakuda a Hayash. Gli ingegneri hanno messo a punto un processo sintetico che impiega sali fusi di polisolfuro reattivo per sviluppare elettroliti solidi solforati. Nel dettaglio utilizzando il flusso di polisolfuro Na2Sx come reagente stechiometrico, i ricercatori hanno sintetizzato due elettroliti di solfuri di sodio dalle caratteristiche distintive, uno dotato della conduttività degli ioni di sodio più alta al mondo (circa 10 volte superiore a quella richiesta per l’uso pratico) e uno vetroso con elevata resistenza alla riduzione.

Questo processo è utile per la produzione di quasi tutti i materiali solforati contenenti sodio, compresi elettroliti solidi e materiali attivi per elettrodi“, ha affermato il professor Sakuda. “Inoltre, rispetto ai metodi convenzionali, rende più semplice ottenere composti che mostrano prestazioni più elevate, quindi crediamo che diventerà una metodologia mainstream per il futuro sviluppo di materiali per batterie al sodio completamente allo stato solido“.  I risultati sono stati pubblicati su Energy Storage Materials and Inorganic Chemistry .

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Giornalista scientifica. Da sempre appassionata di hi-tech e innovazione energetica, ha iniziato a collaborare alla testata fin dalle prime fasi progettuali, profilando le aziende di settore. Nel 2008 è entrata a far parte del team di redattori e nel 2011 è diventata coordinatrice di redazione. Negli anni ha curato anche la comunicazione e l'ufficio stampa di Rinnovabili.it. Oggi è Caporedattrice del quotidiano e, tra le altre cose, si occupa quotidianamente delle novità sulle rinnovabili, delle politiche energetiche e delle tematiche legate a tecnologie e mercato.


Rinnovabili • fotovoltaico materiale quantistico

Fotovoltaico, ecco il materiale quantistico con un’efficienza del 190%

Un gruppo di scienziati della Lehigh University ha sviluppato un materiale dotato di una efficienza quantistica esterna di 90 punti percentuali sopra quella delle celle solari tradizionali

fotovoltaico materiale quantistico
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Nuovo materiale quantistico con un assorbimento solare medio dell’80%

Atomi di rame inseriti tra strati bidimensionali di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. Questa la ricetta messa a punto dai fisici Srihari Kastuar e Chinedu Ekuma nei laboratori della Lehigh University, negli Stati Uniti, per dare una svecchiata alla prestazioni delle celle solari. Il duo di ricercatori ha così creato un nuovo materiale quantistico dalle interessanti proprietà fotovoltaiche. Impiegato come strato attivo in una cella prototipo, infatti, il nuovo materiale ha mostrato un assorbimento solare medio dell’80%, un alto tasso di generazione di portatori fotoeccitati e un’efficienza quantistica esterna (EQE) record del 190%. Secondo gli scienziati il risultato raggiunto supera di gran lunga il limite teorico di efficienza di Shockley-Queisser per i materiali a base di silicio e spinge il campo dei materiali quantistici per il fotovoltaico a nuovi livelli. 

leggi anche Fotovoltaico in perovskite, i punti quantici raggiungono un’efficienza record

L’efficienza quantistica esterna

Tocca fare una precisazione. L’efficienza quantistica esterna non va confusa con l’efficienza di conversione, il dato più celebre quando si parla di prestazioni solari. L’EQE rappresenta il rapporto tra il numero di elettroni che danno luogo a una corrente in un circuito esterno e il numero di fotoni incidenti ad una precisa lunghezza d’onda

Nelle celle solari tradizionali, l’EQE massimo è del 100%, tuttavia negli ultimi anni alcuni materiali e configurazioni avanzate hanno dimostrato la capacità di generare e raccogliere più di un elettrone da ogni fotone ad alta energia incidente, per un efficienza quantistica esterna superiore al 100%. Il risultato di Kastua e Ekuma, però, rappresenta un unicum nel settore.

Celle solari a banda intermedia

Per il loro lavoro due fisici sono partiti da un campo particolare della ricerca fotovoltaica. Parliamo delle celle solari a banda intermedia (IBSC – Intermediate Band Solar Cells), una tecnologia emergente che ha il potenziale per rivoluzionare la produzione di energia pulita. In questi sistemi la radiazione solare può eccitare i portatori dalla banda di valenza a quella di conduzione, oltre che direttamente, anche in maniera graduale. Come?  “Passando” per l’appunto attraverso stati di una banda intermedia, livelli energetici specifici posizionati all’interno della struttura elettronica di un materiale creato ad hoc. “Ciò consente a un singolo fotone di provocare generazioni multiple di eccitoni attraverso un processo di assorbimento in due fasi“, scrivono i due ricercatori sulla rivista Science Advances.

Nel nuovo materiale quantistico creato dagli scienziati della Lehigh University questi stati hanno livelli di energia all’interno dei gap di sottobanda ideali. Una volta testato all’interno di una cella fotovoltaica prototipale il materiale ha mostrato di poter migliorare l’assorbimento e la generazione di portatori nella gamma dello spettro dal vicino infrarosso alla luce visibile. 

La rivoluzione dei materiali quantistici

Il duo ha sviluppato il nuovo materiale sfruttando i “gap di van der Waals”, spazi atomicamente piccoli tra materiali bidimensionali stratificati. Questi spazi possono confinare molecole o ioni e gli scienziati dei materiali li usano comunemente per inserire, o “intercalare”, altri elementi per ottimizzare le proprietà dei materiali. Per la precisione hanno inserito atomi di rame tra strati di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. “Rappresenta un candidato promettente per lo sviluppo di celle solari ad alta efficienza di prossima generazione – ha sottolineato Ekuma – che svolgeranno un ruolo cruciale nell’affrontare il fabbisogno energetico globale“.

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