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Cambiamento climatico, Mastrojeni: «necessaria la mobilitazione di tutti»

Parla Grammenos Mastrojeni diplomatico e Coordinatore per l’Ambiente della Cooperazione allo sviluppo: ha scritto “Effetto serra: effetto guerra” per Chiarelettere (2017) dimostrando come cambiamento climatico e conflitti siano intimamamente connessi.

Cambiamento climatico
©FAO/Roberto Cenciarelli

 

 

«Bene le prese di posizione dei governi sul cambiamento climatico ma serve mobilitazione collettiva: la natura non reagisce ai “pezzi di carta”»

(Rinnovabili.it) – Il Pentagono, quartier generale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ha recentemente stabilito come il cambiamento climatico acceleri situazioni di instabilità portando ad estreme conseguenze (conflitti) situazioni difficili e già provate da crisi interne o indebolimenti. La connessione fra il cambiamento climatico e lo scoppio delle guerre è anche il tema del libro di Grammenos Mastrojeni e Antonello Pasini pubblicato da Chiarelettere: “Effetto serra: effetto guerra”.
Di questa connessione tra clima e guerra ne abbiamo parlato con Mastrojeni, diplomatico e Coordinatore per l’Ambiente della Cooperazione allo sviluppo.

 

Cambiamento climatico e scoppio di conflitti sembrano due tematiche apparentemente distanti ma leggendo “Effetto serra: effetto guerra” si scopre che è l’esatto contrario.

«Da sempre c’è un legame fra stato dell’ambiente e stabilità delle società: si è manifestato anche in tempi lontani (tra l’anno 400 d.c. e l’anno 1000) con delle fluttuazioni spontanee, ad esempio legato ad un periodo di raffreddamento in Asia centrale, connesso ad un aumento del 200% dei conflitti. Le stesse ‘invasioni barbariche’, così come siamo soliti chiamarle, che hanno portato al crollo dell’Impero Romano d’Occidente, sono state sospinte all’origine da alcune fluttuazioni climatiche. La questione è che con l’influsso umano la scala cambia: sia in termini temporali (le fluttuazioni diventano più rapide ed improvvise), sia in termini volumetrici del cambiamento, dunque l’effetto viene esacerbato. Attualmente, secondo ricerche condotte dal G7 (dunque non da ‘circoli ambientalisti’) tramite alcuni think-tank, risultano in corso 79 conflitti che hanno il cambiamento climatico tra le concause. Come avviene tutto ciò è abbastanza ovvio: non è tanto il fatto che con il cambiamento climatico arrivino dei fenomeni estremi, non è neanche il fatto che vi sia più penuria di risorse, ma è dato dal fatto che il comportamento della natura diventa imprevedibile e, di conseguenza, nell’imprevedibilità non si può organizzare né la produzione agricola, né la convivenza civile, perché entrambe le cose sono fondate sui ritmi della natura».

 

Il fattore dell’imprevedibilità, dunque aggrava notevolmente un quadro già destabilizzatosi?

«Certo, destabilizza le società, soprattutto quelle più fragili: quando queste si ‘disorganizzano’ il conflitto aumenta di probabilità».

 

Tutto quello che ha detto ci riporta all’attualità e al continente europeo: può essere considerata come ‘globale’ la partecipazione militare dei paesi della Nato (dunque anche dell’Ue) a dei conflitti spesso causati anche dal cambiamento climatico fuori dai confini occidentali?

«La caratterizzazione del conflitto, in realtà, è data dalla situazione di fatto. Di globale dobbiamo temere una tendenza alla saldatura delle differenti zone di destabilizzazione. Fino ad ora il Pentagono ha definito il cambiamento climatico come un acceleratore di conflitti, dunque non una causa, ed è vero: laddove è presente una società fragile, se “ci si mette” anche il mutamento del clima, la situazione contribuisce a creare un conflitto. Per ora queste fasce di fragilità sono relativamente isolate le une dalle altre. L’esacerbarsi dei cambiamenti climatici e il fatto che l’instabilità che nasce in zone povere si trasmette a catena nelle zone circostanti (e anche più lontane) fa sì che la situazione diventi ingovernabile.
Pensiamo ad un conflitto che ha tra le cause dello scoppio anche quella climatica, ovvero la guerra in Siria: ha portato a una catena di conseguenze a partire dalle migrazioni, che a loro volta, hanno avviato un principio di destabilizzazione – fra virgolette – in Europa. Da quel momento si è iniziato a voler ritrattare Schengen e si è cominciato un dibattito sulle responsabilità delle migrazioni fra Stati. Tali irradiazioni, così facendo, inizieranno ad intrecciarsi e si andrebbe verso uno scenario di destabilizzazione sistemica collocato non troppo in là nel tempo: il turning point è al 2030».

 

>>Leggi anche: Il riscaldamento globale causa guerre e conflitti: lo dice la statistica<<

 

Se, per caso, dovesse verificarsi un evento naturale imprevedibile, come diceva prima, il turning point scenderebbe ulteriormente?

«C’è un esempio che ho citato anche nel libro: se si dovesse verificare lo scioglimento del ghiacciaio dell’Himalaya si andrebbe incontro ad una situazione che metterebbe in movimento più di un miliardo di persone, l’evento avrebbe un carattere decisamente globale».

 

Le migrazioni connesse alla guerra in Siria, che prima ha citato, e quelle scaturitesi all’indomani della guerra in Libia, possono essere chiamate ‘migrazioni economiche’ o, secondo lei, ‘migrazioni climatiche’?

«Innanzitutto c’è bisogno di serietà su questo argomento: non c’è un’unica causa scatenante e sono molteplici, dunque è tutto ‘multifattoriale’ ma i cambiamenti climatici hanno – certamente – impatti su vari territori. Un anno molto interessante, in tal senso, è stato il 2011: in Australia ad esempio è stato caratterizzato da fortissimi inondazioni alternate ad una fortissima siccità. L’Australia, che ha uno Stato forte, è riuscita a contenerne gli effetti entro una dinamica ordinata. Nello stesso anno ci sono stati dei paesi che non sono stati colpiti direttamente dai cambiamenti climatici (parlo di quelli della sponda sud del Mediterraneo) ma ne hanno subito gli effetti indiretti perché questi hanno fatto aumentare i prezzi dei prodotti agricoli (quei paesi ne importano molti) e si è venuta a creare molta povertà. Questa situazione è stata all’origine delle ‘primavere arabe’. L’Italia, che è il paese più esposto, non mi sembra si stia curando troppo di questo tema. Al momento è difficile andare ad identificare una sola motivazione: la causa unica di migrazione relativa al cambiamento climatico per ora si verifica in sparute situazioni».

 

Ad esempio quali?

«I primi rifugiati climatici ufficiali vengono dagli Stati Uniti: a causa della fusione del permafrost in Alaska, che destabilizza le fondamenta fisiche delle comunità, si sono dovute muovere delle persone. Oltre che dall’Artico, iniziano anche a venire dalle isole».

 

È notizia di questi giorni, a tal proposito, la denuncia degli abitanti delle Isole dello Stretto di Torres che hanno denunciato il governo australiano. Anche questo potrebbe rientrare in possibili situazioni che genererebbero ‘rifugiati climatici’?

«Questi sono i primi ‘movimenti climatici’. Se andiamo nelle cose che ci riguardano più da vicino, che sono più consistenti e dove l’impatto del clima è intessuto con altre forme di instabilità, è molto difficile dare un’etichetta all’uno o all’altro. Quello su cui si deve fare chiarezza è che non esiste affatto il ‘migrante climatico’».

 

Perché?

«Perché ‘migrante’ è qualcuno che ha un minimo di scelta libera nella decisione di muoversi e non è vero che quanto più si è poveri tanto più si è propensi a muoversi. Al di sotto di una certa fascia di reddito si rimane intrappolati in quella che viene definita la ‘trappola della povertà’: hai, cioè, un reddito talmente basso che ti è impossibile partire e la migrazione non rientra fra le tue prospettive; la tua unica urgenza è dettata dalla necessità di reperire un pasto per la giornata e ti è impossibile perfino pianificare di andare al villaggio più vicino. Quando si verifica un evento ambientale che può destabilizzare una situazione già precaria, se colpisce coloro che già si trovano nella fascia di quelli che contemplano una migrazione generalmente può essere assorbito da essi: posseggono, cioè, risorse a sufficienza da sopperire ad un mancato raccolto. Se sono sufficientemente ricchi da contemplare una migrazione volontaria, sono anche sufficientemente ricchi per assorbire delle fluttuazioni del clima. In realtà colpisce, generalmente, quelli che si trovano nella ‘trappola della povertà’, dunque non crea migrazioni ma movimenti forzati ed è una cosa completamente diversa».

 

 

>>Leggi anche: Il cambiamento climatico investe culture e geopolitica<<

 

Cioè?

«I movimenti forzati si distinguono dalle migrazioni perché le prime, se ben gestite, possono essere utili per la zona di provenienza, per chi parte e per la zona di arrivo. D’altra parte, invece, se si mette in movimento qualcuno che non ha alcuna ‘difesa’ costoro si tramutano in combustibile per movimenti fanatici, per il traffico illecito, per la criminalità: sono situazioni destabilizzanti e nocive per tutti. L’insegnamento di Madre Terra è che bisogna occuparsi primariamente dei più poveri altrimenti ‘pagano’ tutti».

 

Che giudizio dà a proposito delle due mozioni sull’emergenza climatica in Regno Unito e in Irlanda? Auspica che altri Parlamenti facciano altrettanto?

«Per me il valore maggiore di questi atti non è la cogenza ma la presa di coscienza e spiego il perché: nel 301 d.c. l’imperatore Diocleziano si trovò di fronte ad un’inflazione incontrollata e gli venne in mente di istituire ciò che oggi chiameremmo ‘il calmiere’ [l’ Edictum de pretiis n.d.r.]. Ufficialmente i prezzi non salirono più ma il vero risultato che ottenne è che il mercato si spostò su quello nero. Quello che voglio dire è che il cambiamento climatico non si risolve per decreto legge ma con la mobilitazione dell’intera società. Tra l’altro è una mobilitazione che paradossalmente non avviene massivamente: qualsiasi atto di sostenibilità porta sia più benessere che più ricchezza. Una mobilitazione collettiva significherebbe disinnescare il cataclisma pagando il prezzo di stare meglio».

 

Dagli strati più poveri al benessere di tutti, insomma.

«Ma non solo occupandosi, direttamente e unicamente, di strati svantaggiati: lo si fa anche occupandosi di se stessi. Se pensi alla tua vita vita quotidiana e decidessi di nutrirti, lavarti e muoverti in maniera più salutare, lo fai per te stesso: stai creando sostenibilità nella misura in cui rispetti la tua vera natura, tutto ciò che è salutare è anche sostenibile.
Salutare, ovviamente, va inteso a 360 gradi: se scegli di muoverti in maniera sostenibile generalmente spendi di meno e non solo hai più salute ma hai anche spazi di socializzazione migliore. Questo discorso che vale per ogni individuo vale anche per l’impresa».

 

In che modo?

«Le imprese si stanno accorgendo che hanno tutto da guadagnare ad essere sostenibili, tant’è che i più cattivi dei cattivi dell’economia, cioè la finanza, hanno spostato gli impieghi di investimento sulle cosiddette attività sostenibili (tecnicamente si chiamano ESG) dallo 0,2% al 24% in 10 anni: un progresso enorme. Parallelamente stanno puntando ad avere il 60% dei loro portafogli su attività sostenibili entro breve: non sto parlando di Banca Etica ma di Blackrock! Quello che noi dobbiamo innescare lo dobbiamo fare certamente anche con l’apporto e l’appoggio istituzionale, legislativo e fiscale ma quello da solo, se non è recepito e compreso dalla società, diventa una distorsione».

 

Come si fa a fare in modo che venga percepito da tutti?

«Bisogna far toccare con mano la questione viva. Le imprese hanno un vantaggio su tutti, dunque lo hanno compreso e si stanno muovendo rapidamente in tal senso.
Dobbiamo sovvertire la narrativa tradizionale, paradossalmente, che vede l’economia cattiva verso un pubblico buono, per dirla in maniera molto semplice: non è questione di essere buoni o cattivi ma il consumatore ancora non ha interiorizzato i benefici della sostenibilità dal punto di vista delle proprie scelte consapevoli. Esco per un attimo dai binari dell’argomento principale ma completo quanto sto dicendo: abbiamo pochissimo tempo per rimediare, al massimo dieci anni. Purtroppo non possiamo contare su una totale presa di consapevolezza collettiva che porti a delle scelte di cambiamento volontario e coerente. L’essere umano difficilmente reagisce all’interesse collettivo ma a quello individuale: si sa che soltanto il 2% dei consumatori (e questo è un dato transculturale) incorporano la loro domanda di consumo sostenibile e tipicamente costoro sono i clienti del commercio equo e solidale.
Botteghe importanti ma anche simboliche: rappresentano una fascia minuscola del mercato. Questo non vuol dire che si tratta di una battaglia persa perché sta succedendo qualcosa: oggi la sostenibilità non si compra perché ‘salva il Mondo’ ma perché il prodotto è migliore. Nel settore del turismo la questione è evidente: dieci anni fa l’attività più ricercata era il ‘Resort all inclusive’, altamente insostenibile, dove il grande lusso la faceva da padrone; oggi l’attività più ricercata è quella che ti porta in condizioni di scomodità, in un nugolo di zanzare, a vivere da vicino la natura incontaminata. Tornando al cibo: non possono permetterselo tutti, ma moltissimi consumatori, se potessero, si orienterebbero verso il biologico e il non-industriale. Qui la tempistica ci pone un problema di scala, nel senso che la volontà ci sarebbe ma per ora sono mercati per fasce ricche e bisogna incoraggiarle – paradossalmente – perché facendo in modo che essi comprino creano quell’economia di scala che poi consente di allargare l’accessibilità anche alle fasce più povere e lo si è visto in Germania in cui il biologico era appannaggio dei più ricchi ed ora è accessibile di tutti».

 

Orientarsi più su questo, dunque, che non sugli atti politici?

«Certamente ma non dico che non servono, anzi: segnalano l’unitarietà della società e la consapevolezza in tal senso che è l’unico fattore che può cambiare le cose per tempo. Allo stesso modo un trattato, una legge, un provvedimento fiscale è carta. E la natura non reagisce ai pezzi di carta».

>>Leggi anche: Le guerre di oggi sono causate dal cambiamento climatico?<<

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Rinnovabili • filiere delle rinnovabili

Decreto FERX, gli stakeholder chiedono più chiarezza e trasparenza

Il Ministero dell'Ambiente pubblica gli esiti della consultazione pubblica sul Decreto Ministeriale FER X, chiusa lo scorso settembre. Dai 46 soggetti partecipanti emerge l'esigenza di conoscere per tempo tutte le informazioni utili alla programmazione degli investimenti nelle rinnovabili. Chiesti chiarimenti sul processo autorizzativo e sulle tempistiche

decreto ferx
Foto di Rabih Shasha su Unsplash

Decreto FERX, nuovi spunti di riflessione

Servono maggiori informazioni sui coefficienti sul prezzo d’aggiudicazione, sui criteri di priorità, sulla documentazione per l’accesso al meccanismo e sulle tipologie di interventi ammessi. In particolare quando si tratta di progetti di “rifacimento” e “potenziamento”. Queste alcune delle principali richieste emerse dalla consultazione pubblica sul Decreto FERX. La scorsa estate il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica aveva pubblicato lo schema del provvedimento per una raccolta di pareri da parte degli stakeholder, con l’obiettivo di condividerne le logiche. Oggi il MASE rende noti gli esiti di tale consultazione puntando i riflettori sugli spunti e le richieste emerse da parte dei 46 soggetti partecipanti. 

Gli esiti della consultazione pubblica

Ricordiamo che il Decreto FERX nasce con lo scopo di definire un meccanismo di supporto espressamente dedicato ad impianti a fonti rinnovabili con costi di generazione vicini alla competitività. Come? Tramite contratti CfD a valere sull’energia elettrica prodotta dagli impianti. Con un accesso diretto per quelli di taglia inferiore al MW, e tramite aste al ribasso per quelli di taglia uguale o superiore al MW. Ed è proprio su queste due modalità che arrivano le prime considerazioni.

Per la maggior parte dei soggetti che hanno risposto alla consultazione, il contingente di 5 GW per gli impianti FER ad accesso diretto non sarebbe sufficiente, soprattutto vista la grande attenzione che stanno ricevendo al livello di investimento i sistemi di piccola taglia.

Per quanto riguarda l’accesso tramite asta, invece, il parere generale condivide i contingenti individuati, che secondo l’ultima bozza pubblicata oggi sarebbero: per il fotovoltaico 45 GW; per l’eolico di 16,5 GW; per l’idroelettrico di 630 MW; per i gas residuati 20 MW. “Tuttavia – si legge nel documento del MASE – congiuntamente alla risposta positiva sono state proposte diverse modifiche (aumento di uno specifico contingente, creazione di nuovo contingente, meccanismi di riallocazione della potenza non assegnata, ridefinizione dei contingenti al fine di favorire lo sviluppo dei PPA, etc.)”. Tra gli spunti emersi c’è la proposta di contingenti separati tra il fotovoltaico a terra e sul tetto.

Proposti nuovi requisiti di accesso e tempistiche

In tema requisiti d’accesso, alcuni soggetti chiedono l’incremento della soglia di potenza per l’accesso diretto, l’aggiunta dei criteri ESG, la reintroduzione del requisito specifico che attesti la capacità finanziaria ed economica di chi partecipa al meccanismo del Decreto FERX.

Con riferimento ai tempi massimi individuati per la realizzazione degli interventi, la consultazione ha evidenziato un forte distaccamento con le aspettative degli operatori. Per quanto detto diversi soggetti propongono per una o più fonti l’innalzamento dei tempi previsti, chiedendo di tenere in considerazione parametri quali, la potenza e/o la tipologia d’intervento, l’ottenimento dei titoli autorizzativi, i tempi di realizzazione della connessione e quelli dovuti agli approvvigionamenti, che sottolineano, potrebbero oltretutto determinare un aumento dei costi, visto anche i meccanismi incentivanti”, si legge ancora nel documento.

Per i tempi di comunicazione della data d’entrata in esercizio dell’impianto, emerge nel complesso l’esigenza di un prolungamento, aggiungendo da più 60 giorni a 12 mesi. Viene anche evidenziata una certa contrarietà all’obbligo per gli operatori di impianti rinnovabili non programmabili che stipula un contratto CfD ad abilitarsi alla fornitura dei servizi di dispacciamento.

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Rinnovabili • batteria ibrida al sodio

Dalla Corea la batteria ibrida al sodio che si ricarica in pochi secondi

Un gruppo di scienziati del KAIST ha sviluppato una batteria a ioni di sodio ad alta energia, ad alta potenza e di lunga durata

batteria ibrida al sodio
Foto di danilo.alvesd su Unsplash

Quando le batteria a ioni sodio incontrato i supercondensatori a ioni sodio

Arriva dalla Corea del Sud la prima batteria ibrida al sodio in grado di battere la tecnologia a ioni di litio a mani basse. Con ottime prestazioni lato di capacità di accumulo, potenza, velocità di carica e durata, come dimostra l’articolo pubblicato sulla rivista scientifica Energy Storage Materials (testo in inglese).

Nel 2020 le batterie a ioni sodio (Na+) hanno raggiunto prestazioni comparabili a quelle degli ioni di litio in termini di capacità e durata del ciclo in condizioni di laboratorio. Da allora il segmento ha continuato a macinare grandi progressi, spinto dall’esigenza globale di trovare una tecnologia di accumulo più economica delle ricaricabili al litio e meno dipendente dalle attuali catene di approvvigionamento dei materiali critici. L’ultimo grande risultato nel campo è quello segnato da un gruppo di scienziati del KAIST, il Korea Advanced Institute of Science and Technology.

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Il team guidato dal professor Jeung Ku Kang del Dipartimento di Scienza e Ingegneria dei Materiali ha messo a punto una batteria ibrida agli ioni di sodio dalle prestazioni eccellenti e in grado di ricaricarsi in pochi secondi. Il segreto? Un’architettura che integra materiali anodici propri delle batterie con catodi adatti ai supercondensatori.

Batteria ibrida al sodio, prestazioni record

In realtà non si tratta di un approccio nuovo. Gli stoccaggi ibridi con Na+ sono emersi negli ultimi anni come una promettente applicazione nel campo dell’energy storage in grado di superare i punti deboli degli accumulatori a ioni di sodio più conosciuti.

Tradizionalmente questo metallo è usato e studiato in due tipi di dispositivi di stoccaggio: batterie e condensatori. Le prime, come spiegato poc’anzi, forniscono oggi una densità di energia relativamente elevata ma sono caratterizzate da una lenta cinetica di ossidoriduzione, che si traduce in una bassa densità di potenza e una scarsa ricaricabilità. I secondi invece hanno un’elevata densità di potenza dovuta all’accumulo di carica tramite rapido adsorbimento di ioni superficiali, ma una densità di energia estremamente bassa.

Tuttavia unire le due tecnologie impiegando catodi di tipo condensatore e degli anodi di tipo batteria, non ha dato subito i risultati sperati. La causa è da ricercare soprattutto nello squilibrio cinetico tra i due tipi di elettrodi.

Nuovi materiali per catodo e anodo

Per arginare il problema il team sudcoreano ha utilizzato sviluppato un nuovo materiale anodico con cinetica migliorata attraverso l’inclusione di materiali attivi fini nel carbonio poroso derivato da strutture metallo-organiche. Inoltre, ha sintetizzato un materiale catodico ad alta capacità e la combinazione dei due ha consentito lo sviluppo di un sistema di accumulo di ioni sodio che ottimizza l’equilibrio e riduce al minimo le disparità nei tassi di accumulo di energia tra gli elettrodi.

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La cella completamente assemblata supera per densità di energia le batterie commerciali agli ioni di litio e presenta le caratteristiche della densità di potenza dei supercondensatori. Nel dettaglio la batteria ibrida al sodio si ricarica rapidamente e raggiunge una densità di energia di 247 Wh/kg e una densità di potenza di 34.748 W/kg. Inoltre gli scienziati hanno registrato una stabilità del ciclo con efficienza Coulombica pari a circa il 100% su 5000 cicli di carica-scarica.

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About Author / Stefania Del Bianco

Giornalista scientifica. Da sempre appassionata di hi-tech e innovazione energetica, ha iniziato a collaborare alla testata fin dalle prime fasi progettuali, profilando le aziende di settore. Nel 2008 è entrata a far parte del team di redattori e nel 2011 è diventata coordinatrice di redazione. Negli anni ha curato anche la comunicazione e l'ufficio stampa di Rinnovabili.it. Oggi è Caporedattrice del quotidiano e, tra le altre cose, si occupa quotidianamente delle novità sulle rinnovabili, delle politiche energetiche e delle tematiche legate a tecnologie e mercato.


Rinnovabili • fotovoltaico materiale quantistico

Fotovoltaico, ecco il materiale quantistico con un’efficienza del 190%

Un gruppo di scienziati della Lehigh University ha sviluppato un materiale dotato di una efficienza quantistica esterna di 90 punti percentuali sopra quella delle celle solari tradizionali

fotovoltaico materiale quantistico
via Depositphotos

Nuovo materiale quantistico con un assorbimento solare medio dell’80%

Atomi di rame inseriti tra strati bidimensionali di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. Questa la ricetta messa a punto dai fisici Srihari Kastuar e Chinedu Ekuma nei laboratori della Lehigh University, negli Stati Uniti, per dare una svecchiata alla prestazioni delle celle solari. Il duo di ricercatori ha così creato un nuovo materiale quantistico dalle interessanti proprietà fotovoltaiche. Impiegato come strato attivo in una cella prototipo, infatti, il nuovo materiale ha mostrato un assorbimento solare medio dell’80%, un alto tasso di generazione di portatori fotoeccitati e un’efficienza quantistica esterna (EQE) record del 190%. Secondo gli scienziati il risultato raggiunto supera di gran lunga il limite teorico di efficienza di Shockley-Queisser per i materiali a base di silicio e spinge il campo dei materiali quantistici per il fotovoltaico a nuovi livelli. 

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L’efficienza quantistica esterna

Tocca fare una precisazione. L’efficienza quantistica esterna non va confusa con l’efficienza di conversione, il dato più celebre quando si parla di prestazioni solari. L’EQE rappresenta il rapporto tra il numero di elettroni che danno luogo a una corrente in un circuito esterno e il numero di fotoni incidenti ad una precisa lunghezza d’onda

Nelle celle solari tradizionali, l’EQE massimo è del 100%, tuttavia negli ultimi anni alcuni materiali e configurazioni avanzate hanno dimostrato la capacità di generare e raccogliere più di un elettrone da ogni fotone ad alta energia incidente, per un efficienza quantistica esterna superiore al 100%. Il risultato di Kastua e Ekuma, però, rappresenta un unicum nel settore.

Celle solari a banda intermedia

Per il loro lavoro due fisici sono partiti da un campo particolare della ricerca fotovoltaica. Parliamo delle celle solari a banda intermedia (IBSC – Intermediate Band Solar Cells), una tecnologia emergente che ha il potenziale per rivoluzionare la produzione di energia pulita. In questi sistemi la radiazione solare può eccitare i portatori dalla banda di valenza a quella di conduzione, oltre che direttamente, anche in maniera graduale. Come?  “Passando” per l’appunto attraverso stati di una banda intermedia, livelli energetici specifici posizionati all’interno della struttura elettronica di un materiale creato ad hoc. “Ciò consente a un singolo fotone di provocare generazioni multiple di eccitoni attraverso un processo di assorbimento in due fasi“, scrivono i due ricercatori sulla rivista Science Advances.

Nel nuovo materiale quantistico creato dagli scienziati della Lehigh University questi stati hanno livelli di energia all’interno dei gap di sottobanda ideali. Una volta testato all’interno di una cella fotovoltaica prototipale il materiale ha mostrato di poter migliorare l’assorbimento e la generazione di portatori nella gamma dello spettro dal vicino infrarosso alla luce visibile. 

La rivoluzione dei materiali quantistici

Il duo ha sviluppato il nuovo materiale sfruttando i “gap di van der Waals”, spazi atomicamente piccoli tra materiali bidimensionali stratificati. Questi spazi possono confinare molecole o ioni e gli scienziati dei materiali li usano comunemente per inserire, o “intercalare”, altri elementi per ottimizzare le proprietà dei materiali. Per la precisione hanno inserito atomi di rame tra strati di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. “Rappresenta un candidato promettente per lo sviluppo di celle solari ad alta efficienza di prossima generazione – ha sottolineato Ekuma – che svolgeranno un ruolo cruciale nell’affrontare il fabbisogno energetico globale“.

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