Cicloni: i cambiamenti climatici sono benzina sul fuoco

Gli scienziati del clima avvertono: un mondo sempre più caldo rende le tempeste tropicali più umide, potenti e dannose

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 Florence e Mangkhut riportano l’attenzione sul rapporto cicloni – riscaldamento globale

(Rinnovabili.it) – È bene chiarire subito un punto: i cambiamenti climatici non provocano cicloni. Non hanno causato né Florence, l’uragano che si è abbattuto sulla costa atlantica degli Stati Uniti, né il terribile tifone Mangkhut che dopo aver travolto le Filippine ha raggiunto in queste ore la Cina. Tuttavia il riscaldamento globale costituisce benzina sul fuoco per le tempeste. Un mondo più caldo rende i cicloni più umidi, più potenti e in grado di crescere più velocemente.

Il rapporto tra questi due fenomeni è al centro di un numero sempre maggiore di studi; ovviamente determinare il ruolo del clima in un singolo evento atmosferico non è così semplice. La Associated Press ha consultato 17 meteorologi e scienziati internazionali che studiano climate change e sistemi tempestosi e la maggior parte degli esperti intravede la mano dell’uomo nell’uragano Florence. Uno di questi è Kevin Reed, scienziato del clima presso la Stony Brook University di New York. Il suo lavoro si concentra sulla modellizzazione climatica: realizza modelli che tengano conto di tutte le caratteristiche dell’atmosfera terrestre (calore, venti, umidità, letture della pressione e altro), quindi osserva come questi cambiamenti alterino le previsioni meteo. Lo studio di Reed e del suo team mostra oggi come Florence abbia avuto dimensioni molto maggiori rispetto a quelle che avrebbe avuto in un mondo senza riscaldamento provocato dall’uomo. Inoltre una superficie più calda del mare e una maggiore umidità nell’aria – entrambe causate dal global warming – hanno fatto sì che il ciclone tropicale scaricasse il 50% di pioggia in più su Nord e Sud Carolina.

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“Florence è l’ennesimo manifesto di come le tempeste sovralimentate dall’uomo stiano diventando sempre più comuni e distruttive man mano che il pianeta si scalda”, ha commentato Jonathan Overpeck, rettore della scuola ambientale dell’Università del Michigan, spiegando come il rischio si estenda anche oltre l’Atlantico come dimostra il tifone Mangkhut.

Una delle più interessanti, seppur ancora incerte, connessioni tra i cicloni e i cambiamenti climatici potrebbe essere la tendenza dei sistemi meteorologici tropicali a bloccarsi e ruotare sul posto, generando un livello di precipitazioni e inondazione più alto in aree concentrate. È quanto è successo, ad esempio, l’anno scorso quando Harvey è rimasto per giorni sopra Houston. Un recente studio sulla rivista Nature condotto dall’esperto di uragani del NOAA, Jim Kossin, ha esaminato i dati sugli uragani dal 1949 al 2016 rivelando un rallentamento un rallentamento delle velocità del 20% nell’Oceano Atlantico e del 30% nel Pacifico.

Questa sorta di freno “ha aggravato, e probabilmente guidato, qualsiasi aumento delle precipitazioni locali”, ha concluso il documento. “L’entità del rallentamento è coerente con i cambiamenti previsti nella circolazione atmosferica forzata dalle emissioni antropogeniche”.

 

 

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