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Deep sea mining: i rischi delle miniere a mare aperto

L'industria tecnologica ha fame di metalli preziosi, ma quella mineraria è in crisi. Il deep sea mining è il nuovo Eldorado, ma con quali rischi l'ambiente?

deep sea mining

 

(Rinnovabili.it) – Mentre sulla terraferma si dibatte sugli impatti delle miniere a cielo aperto, sulle opacità nel commercio di terre rare e lo scarso rispetto dei diritti umani nelle zone estrattive, qualcuno sta pensando di spostare il business in luoghi inaccessibili agli sguardi indiscreti degli esseri umani: gli oceani. Del resto, i depositi di minerali preziosi nelle profondità marine sembrano inestimabili. Ferro, cobalto, manganese, nichel, rame e litio sono tra i metalli che scatenano gli appetiti dell’industria tecnologica, avida di materie prime da trasformare in componenti essenziali per dispositivi di ultima generazione.

È così che il deep sea mining, l’estrazione mineraria dai fondali marini, si è trasformata da una vaga speranza in una imminente realtà. Già negli anni Settanta si vociferava di tesori nascosti dagli abissi oceanici, ma per decenni nessuno è stato in grado di andarli a stanare, causa gli alti costi dell’operazione.

Le cose sono cambiate con il nuovo millennio, quando scendere a 4-6 mila metri di profondità con delle sonde telecomandate è divenuta un’operazione costosa ma fattibile. Così si è proceduto alla mappatura di alcune zone considerate ricche di metalli preziosi: la Clarion clipperton zone (CCZ), circa mille chilometri ad ovest della costa messicana, rappresenta l’Eldorado, con 34 miliardi di tonnellate di noduli di manganese sparsi su una superficie di 9 milioni di kmq. Seguono le Isole Cook, il bacino del Peru e l’Oceano Indiano.

In particolare, le risorse recuperabili si trovano sotto tre forme: i noduli polimetallici somigliano alle patate e si trovano in veri e propri campi, tra i 4 e i 6 mila metri di profondità. I solfuri polimetallici, reperibili nella fascia 2-4 mila metri, sono invece grumi di oro, zinco, piombo, rame e terre rare intorno alle crepe del sottosuolo, nati dall’incontro fra le acque calde fuoriuscite dal mantello e quelle gelide dell’Oceano profondo. Le croste di cobalto, infine, si trovano in strati spessi fino a 25 centimetri che coprono come ghiacciai i fianchi delle montagne sottomarine.

 

deep sea mining
Un nodulo polimetallico

 

Impatti sconosciuti

Nessuno sa con precisione quali ricadute potrebbe avere sull’ambiente la pratica del deep sea mining. Non esistono regole vincolanti per il rispetto o il ripristino degli ecosistemi marini dopo le operazioni di raschiatura del fondale ipotizzate per l’estrazione dei minerali. Sono in corso consultazioni con gli stakeholder, che vedono approcci differenti: da una parte il tentativo dell’industria di minimizzare i rischi ed enfatizzare i benefici economici, dall’altra gli allarmi degli ambientalisti e la strisciante preoccupazione degli scienziati.

Nel mezzo, l’International seabed authority (ISA), ente intergovernativo costola delle Nazioni Unite nato nel 1994 sulla scorta della Convenzione sui diritti del mare (UNCLOS) del 1982. Dalla sua sede di Kingston, in Jamaica, deve garantire una gestione sostenibile del fondale marino nelle acque internazionali. Ma gli unici dati in suo possesso provengono dalle imprese interessate all’estrazione dei metalli. Così, l’ISA si trova nella difficile posizione di tracciare le linee guida ambientali delle attività minerarie in mare aperto basandosi su informazioni non indipendenti.

Forse per l’imbarazzo, forse per rispettare il segreto industriale opposto dalle aziende, l’authority non ha mai pubblicato le informazioni in possesso della sua commissione tecnico-legale (LTC). Dato l’interesse pubblico della materia, tuttavia, le organizzazioni ambientaliste internazionali sostengono che questi documenti andrebbero portati a conoscenza del pubblico.

All’interno delle acque territoriali, dove l’ISA non ha poteri, il negoziato vede al tavolo governi e aziende. A trenta km dalle coste della Papua Nuova Guinea, entro la fine del prossimo anno, la Nautilus Minerals potrebbe essere la prima azienda al mondo ad avviare le attività estrattive. Il giacimento Solwara 1, individuato negli anni scorsi e profondo 1600 metri, vanterebbe una concentrazione di rame pari al 7%, contro lo 0,6% della media in terraferma. L’opposizione delle popolazioni locali, costituitesi in un movimento denominato “Solwara Warriors”, non è presa in considerazione né dalle istituzioni né tanto meno dalla Nautilus.

 

Il timore degli esperti europei

Non solo le imprese, ma anche i governi hanno annusato il potenziale affare del deep sea mining: Belgio, Francia, Germania, Regno Unito e Russia hanno registrato diritti presso l’ISA per l’esplorazione delle risorse minerarie. L’Unione Europea sta finanziando progetti per lo sviluppo delle tecnologie estrattive, nell’ambito della strategia “Blue growth” del programma Horizon 2020. Tra le iniziative previste figura anche una analisi sugli impatti ambientali delle “miniere a mare aperto”, coordinata da Bruxelles e finanziata da alcuni Stati membri, tra cui l’Italia.

deep sea miningLe attività minerarie prevedono l’utilizzo di gigantesche ruspe che raschiano il fondale per recuperare i metalli, risucchiandoli e inviandoli tramite un tubo flessibile alle navi soprastanti, che filtrano il materiale, lo separano e ricacciano i detriti senza valore lungo il tubo nuovamente in profondità. Anche qualche impresa italiana spera nel nuovo business: Redaelli, Bedeschi e FA Engineering sono alcuni dei gruppi che hanno fornito materiali alla Nautilus Minerals per il progetto Solwara 1.

Molti esperti hanno sollevato dubbi sulla sostenibilità del processo, chiedendo che vengano condotti ulteriori studi prima di autorizzare l’estrazione in mare. Bisogna tener conto dell’inquinamento acustico, luminoso, le vibrazioni e l’innalzamento di nubi di sedimenti capaci di viaggiare per chilometri prima di depositarsi nuovamente. Tali ammassi potrebbero alterare irreversibilmente l’ecosistema marino, soffocando i microrganismi filtratori che vivono ad alte profondità. Non solo, ma in combinazione con i fenomeni di upwelling (la risalita delle acque profonde in superficie grazie alle correnti) potrebbero crearsi colonne di inerti potenzialmente dannosi per i grandi mammiferi come capodogli, squali e balene.

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Rinnovabili • Batterie al sodio allo stato solido

Batterie al sodio allo stato solido, verso la produzione di massa

Grazie ad un nuovo processo sintetico è stato creato un elettrolita di solfuro solido dotato della più alta conduttività per gli ioni di sodio più alta mai registrata. Circa 10 volte superiore a quella richiesta per l'uso pratico

Batterie al sodio allo stato solido
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Batterie al Sodio allo Stato Solido più facili da Produrre

La batterie allo stato solido incarnano a tutti gli effetti il nuovo mega trend dell’accumulo elettrochimico. E mentre diverse aziende automobilistiche tentano di applicare questa tecnologia agli ioni di litio, c’è chi sta percorrendo strade parallele. É il caso di alcuni ingegneri dell’Università Metropolitana di Osaka, in Giappone. Qui i professori Osaka Atsushi Sakuda e Akitoshi Hayash hanno guidato un gruppo di ricerca nella realizzazione di batterie al sodio allo stato solido attraverso un innovativo processo di sintesi.

Batterie a Ioni Sodio, nuova Frontiera dell’Accumulo

Le batterie al sodio (conosciute erroneamente anche come batterie al sale) hanno conquistato negli ultimi anni parecchia attenzione da parte del mondo scientifico e industriale. L’abbondanza e la facilità di reperimento di questo metallo alcalino ne fanno un concorrente di primo livello dei confronti del litio. Inoltre l’impegno costante sul fronte delle prestazioni sta portando al superamento di alcuni svantaggi intrinseci, come la minore capacità. L’ultimo traguardo raggiunto in questo campo appartiene ad una ricerca cinese che ha realizzato un unità senza anodo con una densità di energia superiore ai 200 Wh/kg.

Integrare questa tecnologia con l’impiego di elettroliti solidi potrebbe teoricamente dare un’ulteriore boost alla densità energetica e migliorare i cicli di carica-scarica (nota dolente per le tradizionali batterie agli ioni di sodio). Quale elettrolita impiegare in questo caso? Quelli di solfuro rappresentano una scelta interessante grazie alla loro elevata conduttività ionica e lavorabilità. Peccato che la sintesi degli elettroliti solforati non sia così semplice e controllabile. Il che si traduce in un’elevata barriera per la produzione commerciale delle batterie al sodio allo stato solido.

Un Flusso di Polisolfuro reattivo

É qui che si inserisce il lavoro del team di Sakuda a Hayash. Gli ingegneri hanno messo a punto un processo sintetico che impiega sali fusi di polisolfuro reattivo per sviluppare elettroliti solidi solforati. Nel dettaglio utilizzando il flusso di polisolfuro Na2Sx come reagente stechiometrico, i ricercatori hanno sintetizzato due elettroliti di solfuri di sodio dalle caratteristiche distintive, uno dotato della conduttività degli ioni di sodio più alta al mondo (circa 10 volte superiore a quella richiesta per l’uso pratico) e uno vetroso con elevata resistenza alla riduzione.

Questo processo è utile per la produzione di quasi tutti i materiali solforati contenenti sodio, compresi elettroliti solidi e materiali attivi per elettrodi“, ha affermato il professor Sakuda. “Inoltre, rispetto ai metodi convenzionali, rende più semplice ottenere composti che mostrano prestazioni più elevate, quindi crediamo che diventerà una metodologia mainstream per il futuro sviluppo di materiali per batterie al sodio completamente allo stato solido“.  I risultati sono stati pubblicati su Energy Storage Materials and Inorganic Chemistry .

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About Author / Stefania Del Bianco

Giornalista scientifica. Da sempre appassionata di hi-tech e innovazione energetica, ha iniziato a collaborare alla testata fin dalle prime fasi progettuali, profilando le aziende di settore. Nel 2008 è entrata a far parte del team di redattori e nel 2011 è diventata coordinatrice di redazione. Negli anni ha curato anche la comunicazione e l'ufficio stampa di Rinnovabili.it. Oggi è Caporedattrice del quotidiano e, tra le altre cose, si occupa quotidianamente delle novità sulle rinnovabili, delle politiche energetiche e delle tematiche legate a tecnologie e mercato.


Rinnovabili • fotovoltaico materiale quantistico

Fotovoltaico, ecco il materiale quantistico con un’efficienza del 190%

Un gruppo di scienziati della Lehigh University ha sviluppato un materiale dotato di una efficienza quantistica esterna di 90 punti percentuali sopra quella delle celle solari tradizionali

fotovoltaico materiale quantistico
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Nuovo materiale quantistico con un assorbimento solare medio dell’80%

Atomi di rame inseriti tra strati bidimensionali di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. Questa la ricetta messa a punto dai fisici Srihari Kastuar e Chinedu Ekuma nei laboratori della Lehigh University, negli Stati Uniti, per dare una svecchiata alla prestazioni delle celle solari. Il duo di ricercatori ha così creato un nuovo materiale quantistico dalle interessanti proprietà fotovoltaiche. Impiegato come strato attivo in una cella prototipo, infatti, il nuovo materiale ha mostrato un assorbimento solare medio dell’80%, un alto tasso di generazione di portatori fotoeccitati e un’efficienza quantistica esterna (EQE) record del 190%. Secondo gli scienziati il risultato raggiunto supera di gran lunga il limite teorico di efficienza di Shockley-Queisser per i materiali a base di silicio e spinge il campo dei materiali quantistici per il fotovoltaico a nuovi livelli. 

leggi anche Fotovoltaico in perovskite, i punti quantici raggiungono un’efficienza record

L’efficienza quantistica esterna

Tocca fare una precisazione. L’efficienza quantistica esterna non va confusa con l’efficienza di conversione, il dato più celebre quando si parla di prestazioni solari. L’EQE rappresenta il rapporto tra il numero di elettroni che danno luogo a una corrente in un circuito esterno e il numero di fotoni incidenti ad una precisa lunghezza d’onda

Nelle celle solari tradizionali, l’EQE massimo è del 100%, tuttavia negli ultimi anni alcuni materiali e configurazioni avanzate hanno dimostrato la capacità di generare e raccogliere più di un elettrone da ogni fotone ad alta energia incidente, per un efficienza quantistica esterna superiore al 100%. Il risultato di Kastua e Ekuma, però, rappresenta un unicum nel settore.

Celle solari a banda intermedia

Per il loro lavoro due fisici sono partiti da un campo particolare della ricerca fotovoltaica. Parliamo delle celle solari a banda intermedia (IBSC – Intermediate Band Solar Cells), una tecnologia emergente che ha il potenziale per rivoluzionare la produzione di energia pulita. In questi sistemi la radiazione solare può eccitare i portatori dalla banda di valenza a quella di conduzione, oltre che direttamente, anche in maniera graduale. Come?  “Passando” per l’appunto attraverso stati di una banda intermedia, livelli energetici specifici posizionati all’interno della struttura elettronica di un materiale creato ad hoc. “Ciò consente a un singolo fotone di provocare generazioni multiple di eccitoni attraverso un processo di assorbimento in due fasi“, scrivono i due ricercatori sulla rivista Science Advances.

Nel nuovo materiale quantistico creato dagli scienziati della Lehigh University questi stati hanno livelli di energia all’interno dei gap di sottobanda ideali. Una volta testato all’interno di una cella fotovoltaica prototipale il materiale ha mostrato di poter migliorare l’assorbimento e la generazione di portatori nella gamma dello spettro dal vicino infrarosso alla luce visibile. 

La rivoluzione dei materiali quantistici

Il duo ha sviluppato il nuovo materiale sfruttando i “gap di van der Waals”, spazi atomicamente piccoli tra materiali bidimensionali stratificati. Questi spazi possono confinare molecole o ioni e gli scienziati dei materiali li usano comunemente per inserire, o “intercalare”, altri elementi per ottimizzare le proprietà dei materiali. Per la precisione hanno inserito atomi di rame tra strati di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. “Rappresenta un candidato promettente per lo sviluppo di celle solari ad alta efficienza di prossima generazione – ha sottolineato Ekuma – che svolgeranno un ruolo cruciale nell’affrontare il fabbisogno energetico globale“.

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About Author / Stefania Del Bianco

Giornalista scientifica. Da sempre appassionata di hi-tech e innovazione energetica, ha iniziato a collaborare alla testata fin dalle prime fasi progettuali, profilando le aziende di settore. Nel 2008 è entrata a far parte del team di redattori e nel 2011 è diventata coordinatrice di redazione. Negli anni ha curato anche la comunicazione e l'ufficio stampa di Rinnovabili.it. Oggi è Caporedattrice del quotidiano e, tra le altre cose, si occupa quotidianamente delle novità sulle rinnovabili, delle politiche energetiche e delle tematiche legate a tecnologie e mercato.