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Emergenza terre rosse: esistono alternative ai diserbanti?

Utilizzati da parecchi decenni, i diserbanti sembrano essere sempre più indispensabili per combattere le erbacce. Cosa stiamo rischiando e quali alternative abbiamo?

Emergenza Terre rosse: esistono alternative ai diserbanti? (Foto di italianostrasiena.wordpress.com)
Campi rossi (Foto di italianostrasiena.wordpress.com)

Complici un inverno piovoso e le temperature miti, le nostre campagne e tutte le aiuole di città si sono ricoperte di un manto erboso più abbondante e vigoroso del solito. Sarà per questa ragione che l’utilizzo dei diserbanti nelle ultime settimane balza agli occhi con maggiore evidenza. Il segno del passaggio degli erbicidi è inequivocabile, le suddette erbe spontanee assumono in pochi giorni una colorazione che va dal giallo al rosso, toni tipici delle foglie in autunno. Le calde tinte fuori stagione sono visibili ai margini stradali o in interi campi e la diffusione del fenomeno è tale da far sorgere preoccupazioni e numerosi interrogativi sui rischi che l’utilizzo di certe sostanze chimiche può provocare nel breve, medio e lungo periodo ai nostri territori.

L’utilizzo degli erbicidi è molto diffuso nell’agricoltura convenzionale. Gli antichi, faticosi e dispendiosi metodi dell’eliminazione manuale delle erbe dannose dalle coltivazioni, sono stati sostituiti da molti anni dalla chimica. Più recente la pratica di utilizzare sostanze diserbanti lungo i margini stradali, considerata più conveniente dei tradizionali tagli periodici delle erbe troppo vigorose.

 

Partiamo da quest’ultimo caso. L’Anas, gestore della rete stradale ed autostradale italiana, ha tra i suoi compiti, la manutenzione del verde lungo le strade statali. Ci siamo rivolti al suo ufficio stampa chiedendo informazioni sulla diffusione dell’utilizzo degli erbicidi nella pulizia dei bordi stradali, sulle sostanze utilizzate, sulle precauzioni prese per la tutela della salute di operatori e cittadinanza, sul rapporto con le amministrazioni locali i cui territori sono interessati dallo spargimento di tali sostanze chimiche. E queste sono le risposte che abbiamo ricevuto in forma scritta:

“La manutenzione del verde e la pulizia delle pertinenze lungo le strade statali viene affidata dall’Anas, secondo uno specifico capitolato tecnico nazionale, a ditte specializzate e abilitate che utilizzano, nelle forme e secondo le prescrizioni previste, appositi prodotti consentiti dalla normativa europea, nazionale e regionale vigente, registrati presso il Ministero della Sanità e reperibili in commercio senza la necessità di particolari autorizzazioni per l’acquisto.

Per questo motivo, l’Anas non conosce i quantitativi utilizzati.

Si tratta di prodotti non pesticidi, biodegradabili, solitamente a base di glyphosate, che non lasciano residui tossici dopo la loro applicazione e vengono utilizzati in percentuali e con modalità tali da non risultare pericolosi o nocivi né per l’uomo né per l’ambiente.

Questi prodotti, comunemente impiegati anche dagli altri Enti gestori di strade, devono inoltre: essere registrati per impieghi nel settore civile; non essere riconosciuti a possibile rischio di effetti cancerogeni dalla Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale (CCTN), dal Centro Studi del Ministero della Sanità nonché dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (AIRC) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità; non riportare in etichetta frasi di rischio per la fauna terrestre ed acquatica nonché per la microfauna e la microflora; essere distribuiti nel rispetto delle norme stabilite nell’articolo 6 del Dpr 2361/88 (Zona di rispetto con estensione non inferiore a 200 metri di raggio dal punto di cooptazione delle acque destinate al consumo umano).

Prima dell’inizio dei lavori l’impresa specializzata comunica regolarmente alla Asl competente per territorio l’elenco dei prodotti e il calendario delle applicazioni programmate ottenendo, laddove previsto dalla normativa regionale, il nulla osta dell’autorità sanitaria.

L’Anas, in qualità di stazione appaltante, verifica comunque l’operato delle imprese esecutrici, al fine di rilevare eventuali usi scorretti dei prodotti in violazione dei contratti sottoscritti”.

 

Non è più dunque lo stesso personale dell’Anas ad occuparsi della pulizia, ma società specializzate a cui la manutenzione viene affidata in appalto. All’Azienda Nazionale Autonoma delle Strade resta comunque il compito di verificare il corretto operato delle esecutrici. A noi invece restano i timori sulle conseguenze che comunque queste sostanze hanno sull’ambiente.

Partiamo da un problema di grande attualità, sempre a causa delle insistenti piogge di questo inverno. Le erbe con le loro radici svolgono una fondamentale funzione di trattenimento del terreno, aiutando inoltre l’acqua a penetrare in profondità. In assenza di un compatto tappeto di erbe spontanee è più probabile che le scarpate franino verso il basso o quantomeno che la terra disciolta invada la carreggiata con conseguente rischio di incidenti. Una volta distrutto, il manto erboso è difficile da ricostituire; infatti il diserbo è più efficace per alcune erbe che per altre e le più resistenti, nelle annate successive, non avendo più competizione naturale, si faranno più aggressive. In pratica iniziare l’utilizzo dei diserbanti costringe a proseguire stagione dopo stagione.

E la biodiversità, per la cui difesa i capi di Stato dell’Unione Europea si accordarono per una strategia che doveva frenarne la perdita entro il 2010, non è più un tema interessante? Per alcune erbe spontanee le zone marginali costituiscono l’ultimo territorio possibile e impedirne la crescita significa impoverire l’intero ecosistema, favorendo poche specie potenzialmente più dannose e difficili da controllare.

Il professor Fabio Taffetani, botanico dell’università politecnica delle Marche, spiega che il glyphosate, il diserbante utilizzato da Anas, è il più aggressivo e meno selettivo oggi sul mercato. “Tra le precauzioni d’uso del glyphosate – scrive il professor Taffetani – c’è il divieto assoluto di irrorare i bordi dei corsi d’acqua e delle zone umide a causa della sua accertata tossicità, anche a basse concentrazioni, sugli organismi acquatici”. Gli effetti del veleno non possono essere limitati alle sole erbe indesiderate, si estendono inevitabilmente alle  specie animali, coinvolgendo l’intera catena alimentare. L’uomo non ne resta certamente escluso, si pensi soltanto all’abitudine della raccolta di piante spontanee per uso alimentare.

 

Per il professor Gianni Tamino, docente di Biologia presso l’Università degli studi di Padova,  il  glyphosate si trasforma in una sostanza attiva che viene assorbita dal terreno e uno studio scientifico pubblicato dalla rivista  Cancer collegherebbe l’uso del glyphosate all’aumento del numero di persone colpite da linfoma non Hodgkin.

L’erba, come ogni vegetale, vive grazie alla fotosintesi che consuma anidride carbonica, la grande imputata per i cambiamenti climatici. In città, per contrastare il calore, si raccomandano tetti e balconi verdi, che senso ha dunque rinunciare al compito svolto dalle erbe spontanee nella produzione di ossigeno?

 

Infine, vale la pena soffermarsi sull’impatto estetico di tale pratica. Al verde brillante punteggiato di fiori variopinti, si contrappongono tristi scene di erbe morenti, per le quali è comunque necessario intervenire con il taglio se non si vuole anticipare di qualche mese il fenomeno degli incendi di sterpaglie.

I diserbanti vengono ampiamente utilizzati in agricoltura, anche se molte esperienze provano ad indicare altre strade, appare difficile pensare di rinunciarvi nell’epoca delle monocolture. Ne abbiamo parlato con Stefano Soldati, esperto di agricoltura biologica e cofondatore dell’Accademia Italiana di Permacultura, parola coniata da Bill Mollison, scienziato e naturalista australiano. La Permacultura viene definita “un metodo per progettare e gestire paesaggi antropizzati in modo che siano in grado di soddisfare i bisogni della popolazione quali cibo, fibre ed energia e al contempo presentino la resilienza, ricchezza e stabilità di ecosistemi naturali”. In Permacultura la parola “erbacce” è vietata, le verdi conquistatrici di territorio si chiamano “piante pioniere”.

 

“La Permacultura non dice sì o no all’utilizzo di diserbanti – spiega Stefano Soldati – ma si interroga su come ridurre il più possibile l’impatto dell’uomo sull’ambiente. I diserbanti hanno indubbiamente un forte impatto sulla vita del terreno, si tratta di veleni, meglio dunque cercare delle alternative quando possibili. Le alternative ci sono, siamo di fronte ad un problema culturale, non tecnico. Non critichiamo gli agricoltori, che sono disperati, anche loro duramente colpiti dalla crisi. In realtà siamo noi consumatori a doverli aiutare, scegliendo prodotti di qualità italiani, pagandoli se necessario un po’ di più”.

 

Il giusto approccio – continua Soldati – dovrebbe partire dalla conoscenza del terreno, che non è un supporto, ma un organismo vivente. Va data priorità alla fertilità della terra e penso a pratiche come il sovescio, che consentono di non aver bisogno di diserbanti”.

Viviamo in un’epoca in cui la consapevolezza che il nostro destino è legato alla tutela dell’ambiente è molto diffusa. E’ il momento, dunque, di intervenire contro pratiche, apparentemente comode, che hanno già ampiamente dimostrato di essere insostenibili nel lungo periodo.

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About Author / Stefania Del Bianco

Giornalista scientifica. Da sempre appassionata di hi-tech e innovazione energetica, ha iniziato a collaborare alla testata fin dalle prime fasi progettuali, profilando le aziende di settore. Nel 2008 è entrata a far parte del team di redattori e nel 2011 è diventata coordinatrice di redazione. Negli anni ha curato anche la comunicazione e l'ufficio stampa di Rinnovabili.it. Oggi è Caporedattrice del quotidiano e, tra le altre cose, si occupa quotidianamente delle novità sulle rinnovabili, delle politiche energetiche e delle tematiche legate a tecnologie e mercato.


Rinnovabili • filiere delle rinnovabili

Decreto FERX, gli stakeholder chiedono più chiarezza e trasparenza

Il Ministero dell'Ambiente pubblica gli esiti della consultazione pubblica sul Decreto Ministeriale FER X, chiusa lo scorso settembre. Dai 46 soggetti partecipanti emerge l'esigenza di conoscere per tempo tutte le informazioni utili alla programmazione degli investimenti nelle rinnovabili. Chiesti chiarimenti sul processo autorizzativo e sulle tempistiche

decreto ferx
Foto di Rabih Shasha su Unsplash

Decreto FERX, nuovi spunti di riflessione

Servono maggiori informazioni sui coefficienti sul prezzo d’aggiudicazione, sui criteri di priorità, sulla documentazione per l’accesso al meccanismo e sulle tipologie di interventi ammessi. In particolare quando si tratta di progetti di “rifacimento” e “potenziamento”. Queste alcune delle principali richieste emerse dalla consultazione pubblica sul Decreto FERX. La scorsa estate il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica aveva pubblicato lo schema del provvedimento per una raccolta di pareri da parte degli stakeholder, con l’obiettivo di condividerne le logiche. Oggi il MASE rende noti gli esiti di tale consultazione puntando i riflettori sugli spunti e le richieste emerse da parte dei 46 soggetti partecipanti. 

Gli esiti della consultazione pubblica

Ricordiamo che il Decreto FERX nasce con lo scopo di definire un meccanismo di supporto espressamente dedicato ad impianti a fonti rinnovabili con costi di generazione vicini alla competitività. Come? Tramite contratti CfD a valere sull’energia elettrica prodotta dagli impianti. Con un accesso diretto per quelli di taglia inferiore al MW, e tramite aste al ribasso per quelli di taglia uguale o superiore al MW. Ed è proprio su queste due modalità che arrivano le prime considerazioni.

Per la maggior parte dei soggetti che hanno risposto alla consultazione, il contingente di 5 GW per gli impianti FER ad accesso diretto non sarebbe sufficiente, soprattutto vista la grande attenzione che stanno ricevendo al livello di investimento i sistemi di piccola taglia.

Per quanto riguarda l’accesso tramite asta, invece, il parere generale condivide i contingenti individuati, che secondo l’ultima bozza pubblicata oggi sarebbero: per il fotovoltaico 45 GW; per l’eolico di 16,5 GW; per l’idroelettrico di 630 MW; per i gas residuati 20 MW. “Tuttavia – si legge nel documento del MASE – congiuntamente alla risposta positiva sono state proposte diverse modifiche (aumento di uno specifico contingente, creazione di nuovo contingente, meccanismi di riallocazione della potenza non assegnata, ridefinizione dei contingenti al fine di favorire lo sviluppo dei PPA, etc.)”. Tra gli spunti emersi c’è la proposta di contingenti separati tra il fotovoltaico a terra e sul tetto.

Proposti nuovi requisiti di accesso e tempistiche

In tema requisiti d’accesso, alcuni soggetti chiedono l’incremento della soglia di potenza per l’accesso diretto, l’aggiunta dei criteri ESG, la reintroduzione del requisito specifico che attesti la capacità finanziaria ed economica di chi partecipa al meccanismo del Decreto FERX.

Con riferimento ai tempi massimi individuati per la realizzazione degli interventi, la consultazione ha evidenziato un forte distaccamento con le aspettative degli operatori. Per quanto detto diversi soggetti propongono per una o più fonti l’innalzamento dei tempi previsti, chiedendo di tenere in considerazione parametri quali, la potenza e/o la tipologia d’intervento, l’ottenimento dei titoli autorizzativi, i tempi di realizzazione della connessione e quelli dovuti agli approvvigionamenti, che sottolineano, potrebbero oltretutto determinare un aumento dei costi, visto anche i meccanismi incentivanti”, si legge ancora nel documento.

Per i tempi di comunicazione della data d’entrata in esercizio dell’impianto, emerge nel complesso l’esigenza di un prolungamento, aggiungendo da più 60 giorni a 12 mesi. Viene anche evidenziata una certa contrarietà all’obbligo per gli operatori di impianti rinnovabili non programmabili che stipula un contratto CfD ad abilitarsi alla fornitura dei servizi di dispacciamento.

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Rinnovabili • batteria ibrida al sodio

Dalla Corea la batteria ibrida al sodio che si ricarica in pochi secondi

Un gruppo di scienziati del KAIST ha sviluppato una batteria a ioni di sodio ad alta energia, ad alta potenza e di lunga durata

batteria ibrida al sodio
Foto di danilo.alvesd su Unsplash

Quando le batteria a ioni sodio incontrato i supercondensatori a ioni sodio

Arriva dalla Corea del Sud la prima batteria ibrida al sodio in grado di battere la tecnologia a ioni di litio a mani basse. Con ottime prestazioni lato di capacità di accumulo, potenza, velocità di carica e durata, come dimostra l’articolo pubblicato sulla rivista scientifica Energy Storage Materials (testo in inglese).

Nel 2020 le batterie a ioni sodio (Na+) hanno raggiunto prestazioni comparabili a quelle degli ioni di litio in termini di capacità e durata del ciclo in condizioni di laboratorio. Da allora il segmento ha continuato a macinare grandi progressi, spinto dall’esigenza globale di trovare una tecnologia di accumulo più economica delle ricaricabili al litio e meno dipendente dalle attuali catene di approvvigionamento dei materiali critici. L’ultimo grande risultato nel campo è quello segnato da un gruppo di scienziati del KAIST, il Korea Advanced Institute of Science and Technology.

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Il team guidato dal professor Jeung Ku Kang del Dipartimento di Scienza e Ingegneria dei Materiali ha messo a punto una batteria ibrida agli ioni di sodio dalle prestazioni eccellenti e in grado di ricaricarsi in pochi secondi. Il segreto? Un’architettura che integra materiali anodici propri delle batterie con catodi adatti ai supercondensatori.

Batteria ibrida al sodio, prestazioni record

In realtà non si tratta di un approccio nuovo. Gli stoccaggi ibridi con Na+ sono emersi negli ultimi anni come una promettente applicazione nel campo dell’energy storage in grado di superare i punti deboli degli accumulatori a ioni di sodio più conosciuti.

Tradizionalmente questo metallo è usato e studiato in due tipi di dispositivi di stoccaggio: batterie e condensatori. Le prime, come spiegato poc’anzi, forniscono oggi una densità di energia relativamente elevata ma sono caratterizzate da una lenta cinetica di ossidoriduzione, che si traduce in una bassa densità di potenza e una scarsa ricaricabilità. I secondi invece hanno un’elevata densità di potenza dovuta all’accumulo di carica tramite rapido adsorbimento di ioni superficiali, ma una densità di energia estremamente bassa.

Tuttavia unire le due tecnologie impiegando catodi di tipo condensatore e degli anodi di tipo batteria, non ha dato subito i risultati sperati. La causa è da ricercare soprattutto nello squilibrio cinetico tra i due tipi di elettrodi.

Nuovi materiali per catodo e anodo

Per arginare il problema il team sudcoreano ha utilizzato sviluppato un nuovo materiale anodico con cinetica migliorata attraverso l’inclusione di materiali attivi fini nel carbonio poroso derivato da strutture metallo-organiche. Inoltre, ha sintetizzato un materiale catodico ad alta capacità e la combinazione dei due ha consentito lo sviluppo di un sistema di accumulo di ioni sodio che ottimizza l’equilibrio e riduce al minimo le disparità nei tassi di accumulo di energia tra gli elettrodi.

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La cella completamente assemblata supera per densità di energia le batterie commerciali agli ioni di litio e presenta le caratteristiche della densità di potenza dei supercondensatori. Nel dettaglio la batteria ibrida al sodio si ricarica rapidamente e raggiunge una densità di energia di 247 Wh/kg e una densità di potenza di 34.748 W/kg. Inoltre gli scienziati hanno registrato una stabilità del ciclo con efficienza Coulombica pari a circa il 100% su 5000 cicli di carica-scarica.

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Rinnovabili • fotovoltaico materiale quantistico

Fotovoltaico, ecco il materiale quantistico con un’efficienza del 190%

Un gruppo di scienziati della Lehigh University ha sviluppato un materiale dotato di una efficienza quantistica esterna di 90 punti percentuali sopra quella delle celle solari tradizionali

fotovoltaico materiale quantistico
via Depositphotos

Nuovo materiale quantistico con un assorbimento solare medio dell’80%

Atomi di rame inseriti tra strati bidimensionali di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. Questa la ricetta messa a punto dai fisici Srihari Kastuar e Chinedu Ekuma nei laboratori della Lehigh University, negli Stati Uniti, per dare una svecchiata alla prestazioni delle celle solari. Il duo di ricercatori ha così creato un nuovo materiale quantistico dalle interessanti proprietà fotovoltaiche. Impiegato come strato attivo in una cella prototipo, infatti, il nuovo materiale ha mostrato un assorbimento solare medio dell’80%, un alto tasso di generazione di portatori fotoeccitati e un’efficienza quantistica esterna (EQE) record del 190%. Secondo gli scienziati il risultato raggiunto supera di gran lunga il limite teorico di efficienza di Shockley-Queisser per i materiali a base di silicio e spinge il campo dei materiali quantistici per il fotovoltaico a nuovi livelli. 

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L’efficienza quantistica esterna

Tocca fare una precisazione. L’efficienza quantistica esterna non va confusa con l’efficienza di conversione, il dato più celebre quando si parla di prestazioni solari. L’EQE rappresenta il rapporto tra il numero di elettroni che danno luogo a una corrente in un circuito esterno e il numero di fotoni incidenti ad una precisa lunghezza d’onda

Nelle celle solari tradizionali, l’EQE massimo è del 100%, tuttavia negli ultimi anni alcuni materiali e configurazioni avanzate hanno dimostrato la capacità di generare e raccogliere più di un elettrone da ogni fotone ad alta energia incidente, per un efficienza quantistica esterna superiore al 100%. Il risultato di Kastua e Ekuma, però, rappresenta un unicum nel settore.

Celle solari a banda intermedia

Per il loro lavoro due fisici sono partiti da un campo particolare della ricerca fotovoltaica. Parliamo delle celle solari a banda intermedia (IBSC – Intermediate Band Solar Cells), una tecnologia emergente che ha il potenziale per rivoluzionare la produzione di energia pulita. In questi sistemi la radiazione solare può eccitare i portatori dalla banda di valenza a quella di conduzione, oltre che direttamente, anche in maniera graduale. Come?  “Passando” per l’appunto attraverso stati di una banda intermedia, livelli energetici specifici posizionati all’interno della struttura elettronica di un materiale creato ad hoc. “Ciò consente a un singolo fotone di provocare generazioni multiple di eccitoni attraverso un processo di assorbimento in due fasi“, scrivono i due ricercatori sulla rivista Science Advances.

Nel nuovo materiale quantistico creato dagli scienziati della Lehigh University questi stati hanno livelli di energia all’interno dei gap di sottobanda ideali. Una volta testato all’interno di una cella fotovoltaica prototipale il materiale ha mostrato di poter migliorare l’assorbimento e la generazione di portatori nella gamma dello spettro dal vicino infrarosso alla luce visibile. 

La rivoluzione dei materiali quantistici

Il duo ha sviluppato il nuovo materiale sfruttando i “gap di van der Waals”, spazi atomicamente piccoli tra materiali bidimensionali stratificati. Questi spazi possono confinare molecole o ioni e gli scienziati dei materiali li usano comunemente per inserire, o “intercalare”, altri elementi per ottimizzare le proprietà dei materiali. Per la precisione hanno inserito atomi di rame tra strati di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. “Rappresenta un candidato promettente per lo sviluppo di celle solari ad alta efficienza di prossima generazione – ha sottolineato Ekuma – che svolgeranno un ruolo cruciale nell’affrontare il fabbisogno energetico globale“.

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