Rinnovabili •

Trivellazioni in Emilia: perché rischiare ancora?

È saltata la moratoria sulle trivellazioni in Emilia, votata dopo il terremoto del 2012. È il nuovo regalo alle compagnie, ma i rischi non sono scongiurati

Trivellazioni in Emilia perché rischiare ancora 5

 

(Rinnovabili.it) – La scorsa settimana una delibera della Giunta regionale retta da Stefano Bonaccini ha revocato la sospensione per le trivellazioni in Emilia, votata sull’onda delle rivelazioni circa possibili collegamenti con il terremoto del 2012. La delibera serve a sbloccare le procedure congelate dal 2014 a oggi, aprendo la porta alla presentazione di nuovi progetti di ricerca per la valutazione di impatto ambientale.

 

Il centro Italia è un territorio soggetto per natura e per storia ai terremoti. Sono molti i casi, in tutto il mondo, di sismicità innescata da operazioni petrolifere o relative alla ricerca degli idrocarburi in genere. Eppure la politica nazionale e regionale spinge decisa verso lo sfruttamento del petrolio. L’Emilia è la regione più perforata d’Italia, con 1.716 dei 5.478 pozzi su terra oggi esistenti. Le analisi post terremoto hanno gettato lunghe ombre sulle responsabilità delle autorità e delle compagnie petrolifere. Analisi controverse sono state smentite da rapporti ancor più controversi, da cui sono emersi conflitti di interesse di prima grandezza. Tuttavia, è su di essi che si basa la decisione della Regione, in accordo con il ministero dello Sviluppo economico, di riaprire i confini alle trivelle. Non farà male, perciò, raccontare nuovamente una storia dai molti lati opachi. Foss’anche solo per poter dire – Dio non voglia – che l’avevamo scritto.

 

Trivellazioni in Emilia perché rischiare ancora

 

Un rapporto “bomba” chiuso nel cassetto

Secondo le conclusioni della Commissione internazionale ICHESE (International Commission on Hydrocarbon Exploration and Seismicity in the Emilia region), le due più intense scosse di terremoto (di magnitudo 5.9 e 5.8) che hanno colpito l’Emilia il 20 e 29 maggio 2012 uccidendo 27 persone e provocando 13 miliardi di euro di danni, potrebbero essere state innescate dalle attività estrattive di campo Cavone, nei pressi di Mirandola.

Trivellazioni in Emilia perché rischiare ancora 3Non ci sono prove certe – tengono a precisare i sei esperti nominati dal capo della Protezione Civile, Franco Gabrielli – che permettano di attribuire alle trivellazioni per il petrolio la responsabilità del disastro. Quasi tutti, va detto, hanno rapporti diretti o indiretti con l’industria fossile: il presidente della Commissione, Peter Styles, è membro dell’advisory panel della Shale Gas Europe, una lobby del fracking finanziata da alcune fra le più grandi compagnie energetiche del mondo: Shell, Halliburton, Cuadrilla, Statoil, Total. Gli altri membri, tranne Stanislaw Lasocki, hanno anch’essi dei legami con le compagnie petrolifere: Paolo Gasparini, Ernst Huenges, Paolo Scandone, Franco Terlizzese.

 

Nonostante i legittimi dubbi sull’imparzialità degli studiosi, le loro conclusioni dicono che non è possibile escludere, ma neanche provare, che l’attività umana abbia avuto un qualche ruolo nell’innescare quei terremoti, stimolando una faglia già vicina al punto di rottura. Anche perché quello di campo Cavone è già di per sé un territorio instabile. È proprio qui che la Commissione ICHESE trova qualche correlazione statistica tra l’attività sismica e quella umana per quanto riguarda l’attività di estrazione e iniezione di liquidi. Lo sottolinea un articolo uscito su Science l’11 aprile del 2014. Lo firma Edwin Cartlidge, giornalista scientifico che per primo ha portato alla luce l’esistenza del rapporto ICHESE, rimasto chiuso in un cassetto della Regione per due mesi. Il suo lavoro, in pochi giorni, costringe il governatore Vasco Errani a rendere pubblica la relazione, conclusa nel febbraio del 2014.

 

 

Cosa fanno al Cavone 14?

L’attività estrattiva a campo Cavone è cresciuta a partire dal 2011, un anno prima del terremoto. Una brusca variazione dell’attività di estrazione tra 2011 e 2012 potrebbe aver contribuito a dare il via alla sequenza sismica che ha portato poi alle due grandi scosse del maggio 2012. Secondo Science, potrebbe essere stata la reiniezione dei fluidi nel sottosuolo ad innescare il processo, una tecnica utilizzata per facilitare il recupero del petrolio grazie a solventi chimici – immessi nel terreno ad alta pressione – che lo rendono più liquido. Gli scienziati parlano infatti di «variazioni di pressione» derivanti dalla «rimozione del greggio e l’iniezione di fluidi per migliorare il flusso di petrolio».

 

A campo Cavone c’è un pozzo per la reiniezione dei fluidi. Si chiama Cavone 14, ed è gestito dalla compagnia Padana Energia, che tra Lombardia ed Emilia Romagna vanta in tutto 52 pozzi, secondo i dati del Ministero dello Sviluppo economico. La stessa Commissione ICHESE aveva scritto (pag. 194) che «l’attività sismica immediatamente precedente il 20 maggio e l’evento principale del 20 maggio sono statisticamente correlati con l’aumento dell’attività di estrazione e re-iniezione di Cavone».

 

Trivellazioni in Emilia perché rischiare ancora 4

 

Il rapporto salva-trivelle

Queste conclusioni spingono il governo italiano alla nomina di un gruppo di esperti che vada a fondo delle questioni lasciate aperte dal bruciante report svelato da Science. Così, ad aprile dello scorso anno, Regione Emilia Romagna, ministero dello Sviluppo economico mettono insieme il Laboratorio di monitoraggio Cavone. In soli 90 giorni arriva il verdetto, con la presentazione pubblica dei risultati dello studio commissionato dalla stessa compagnia petrolifera (Padana Energia) che opera nel pozzo Cavone 14. La ricerca conclude così: «Si può escludere che le attività estrattive e di reiniezione connesse alla concessione di coltivazione di idrocarburi di Mirandola abbiano innescato il sisma del maggio 2012».

 

Più di un addetto ai lavori storce il naso: non a tutti pare scientificamente accurata l’analisi che porta a simili conclusioni. Il perché lo spiega ancora Science, in un articolo del 1 agosto 2014 firmato sempre da Edwin Cartlidge. Il giornalista, che ha denunciato pressioni ai suoi danni per non pubblicare le informazioni di cui era venuto a conoscenza, mette spalle al muro lo studio del Laboratorio di monitoraggio Cavone: «Nel loro modello – spiega Cartlidge – i ricercatori americani hanno simulato come i cambiamenti nella produzione a Cavone hanno interessato la faglia più vicina al campo petrolifero – la faglia di Mirandola – ma non la faglia di Ferrara, che si trova 20 km più distante». Se la prima ha generato il sisma del 29 maggio, quest’ultima è la responsabile del terremoto del 20 maggio. Perché non viene menzionata?

 

Trivellazioni in Emilia perché rischiare ancora 1

 

 

La volpe a guardia del pollaio

Il fatto porta Franco Ortolani, docente di geologia all’Università di Napoli Federico II, a criticare pubblicamente quella che ha definito «trasparenza di facciata». Il professore dichiara che «la sperimentazione è stata una partita giocata tra le parti interessate, con Padana Energia incaricata di monitorare pur essendo titolare della concessione mineraria, e due dei professori americani chiamati ad analizzare il giacimento che conducono ricerche per l’MIT finanziate da Eni. Come fidarsi?».

La compagnia petrolifera, a lungo controllata da Eni, secondo Science avrebbe chiesto ad Assomineraria di contribuire alla raccolta dati. Per la stesura del rapporto finale, che smentisce le conclusioni della Commissione ICHESE, sarebbero stati utilizzati studi e analisi contenuti in un rapporto Eni del 2012, addirittura precedente all’inizio dei lavori della Commissione stessa e poi riadattato per l’occorrenza, come fosse stato commissionato in seguito. James Dieterich, dell’Università della California, uno dei sei esperti che hanno contribuito alla ricerca, ha confermato che la maggior parte del rapporto era stata completata prima della nascita del Laboratorio di monitoraggio Cavone.

 

Chi difende l’operato degli esperti nominati dal ministero dello Sviluppo economico, spesso cita il beneplacito dell’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) alle analisi del Laboratorio Cavone. Tuttavia, spiega Science, uno degli studiosi che ha firmato il documento di valutazione dello studio, Claudio Chiarabba, «non è convinto che la vicenda Cavone sia chiusa scientificamente». E queste parole sono confermate da Enzo Boschi, ex presidente dell’Istituto.

About Author / La Redazione

Rinnovabili • Batterie al sodio allo stato solido

Batterie al sodio allo stato solido, verso la produzione di massa

Grazie ad un nuovo processo sintetico è stato creato un elettrolita di solfuro solido dotato della più alta conduttività per gli ioni di sodio più alta mai registrata. Circa 10 volte superiore a quella richiesta per l'uso pratico

Batterie al sodio allo stato solido
via Depositphotos

Batterie al Sodio allo Stato Solido più facili da Produrre

La batterie allo stato solido incarnano a tutti gli effetti il nuovo mega trend dell’accumulo elettrochimico. E mentre diverse aziende automobilistiche tentano di applicare questa tecnologia agli ioni di litio, c’è chi sta percorrendo strade parallele. É il caso di alcuni ingegneri dell’Università Metropolitana di Osaka, in Giappone. Qui i professori Osaka Atsushi Sakuda e Akitoshi Hayash hanno guidato un gruppo di ricerca nella realizzazione di batterie al sodio allo stato solido attraverso un innovativo processo di sintesi.

Batterie a Ioni Sodio, nuova Frontiera dell’Accumulo

Le batterie al sodio (conosciute erroneamente anche come batterie al sale) hanno conquistato negli ultimi anni parecchia attenzione da parte del mondo scientifico e industriale. L’abbondanza e la facilità di reperimento di questo metallo alcalino ne fanno un concorrente di primo livello dei confronti del litio. Inoltre l’impegno costante sul fronte delle prestazioni sta portando al superamento di alcuni svantaggi intrinseci, come la minore capacità. L’ultimo traguardo raggiunto in questo campo appartiene ad una ricerca cinese che ha realizzato un unità senza anodo con una densità di energia superiore ai 200 Wh/kg.

Integrare questa tecnologia con l’impiego di elettroliti solidi potrebbe teoricamente dare un’ulteriore boost alla densità energetica e migliorare i cicli di carica-scarica (nota dolente per le tradizionali batterie agli ioni di sodio). Quale elettrolita impiegare in questo caso? Quelli di solfuro rappresentano una scelta interessante grazie alla loro elevata conduttività ionica e lavorabilità. Peccato che la sintesi degli elettroliti solforati non sia così semplice e controllabile. Il che si traduce in un’elevata barriera per la produzione commerciale delle batterie al sodio allo stato solido.

Un Flusso di Polisolfuro reattivo

É qui che si inserisce il lavoro del team di Sakuda a Hayash. Gli ingegneri hanno messo a punto un processo sintetico che impiega sali fusi di polisolfuro reattivo per sviluppare elettroliti solidi solforati. Nel dettaglio utilizzando il flusso di polisolfuro Na2Sx come reagente stechiometrico, i ricercatori hanno sintetizzato due elettroliti di solfuri di sodio dalle caratteristiche distintive, uno dotato della conduttività degli ioni di sodio più alta al mondo (circa 10 volte superiore a quella richiesta per l’uso pratico) e uno vetroso con elevata resistenza alla riduzione.

Questo processo è utile per la produzione di quasi tutti i materiali solforati contenenti sodio, compresi elettroliti solidi e materiali attivi per elettrodi“, ha affermato il professor Sakuda. “Inoltre, rispetto ai metodi convenzionali, rende più semplice ottenere composti che mostrano prestazioni più elevate, quindi crediamo che diventerà una metodologia mainstream per il futuro sviluppo di materiali per batterie al sodio completamente allo stato solido“.  I risultati sono stati pubblicati su Energy Storage Materials and Inorganic Chemistry .

Rinnovabili •
About Author / Stefania Del Bianco

Giornalista scientifica. Da sempre appassionata di hi-tech e innovazione energetica, ha iniziato a collaborare alla testata fin dalle prime fasi progettuali, profilando le aziende di settore. Nel 2008 è entrata a far parte del team di redattori e nel 2011 è diventata coordinatrice di redazione. Negli anni ha curato anche la comunicazione e l'ufficio stampa di Rinnovabili.it. Oggi è Caporedattrice del quotidiano e, tra le altre cose, si occupa quotidianamente delle novità sulle rinnovabili, delle politiche energetiche e delle tematiche legate a tecnologie e mercato.


Rinnovabili • fotovoltaico materiale quantistico

Fotovoltaico, ecco il materiale quantistico con un’efficienza del 190%

Un gruppo di scienziati della Lehigh University ha sviluppato un materiale dotato di una efficienza quantistica esterna di 90 punti percentuali sopra quella delle celle solari tradizionali

fotovoltaico materiale quantistico
via Depositphotos

Nuovo materiale quantistico con un assorbimento solare medio dell’80%

Atomi di rame inseriti tra strati bidimensionali di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. Questa la ricetta messa a punto dai fisici Srihari Kastuar e Chinedu Ekuma nei laboratori della Lehigh University, negli Stati Uniti, per dare una svecchiata alla prestazioni delle celle solari. Il duo di ricercatori ha così creato un nuovo materiale quantistico dalle interessanti proprietà fotovoltaiche. Impiegato come strato attivo in una cella prototipo, infatti, il nuovo materiale ha mostrato un assorbimento solare medio dell’80%, un alto tasso di generazione di portatori fotoeccitati e un’efficienza quantistica esterna (EQE) record del 190%. Secondo gli scienziati il risultato raggiunto supera di gran lunga il limite teorico di efficienza di Shockley-Queisser per i materiali a base di silicio e spinge il campo dei materiali quantistici per il fotovoltaico a nuovi livelli. 

leggi anche Fotovoltaico in perovskite, i punti quantici raggiungono un’efficienza record

L’efficienza quantistica esterna

Tocca fare una precisazione. L’efficienza quantistica esterna non va confusa con l’efficienza di conversione, il dato più celebre quando si parla di prestazioni solari. L’EQE rappresenta il rapporto tra il numero di elettroni che danno luogo a una corrente in un circuito esterno e il numero di fotoni incidenti ad una precisa lunghezza d’onda

Nelle celle solari tradizionali, l’EQE massimo è del 100%, tuttavia negli ultimi anni alcuni materiali e configurazioni avanzate hanno dimostrato la capacità di generare e raccogliere più di un elettrone da ogni fotone ad alta energia incidente, per un efficienza quantistica esterna superiore al 100%. Il risultato di Kastua e Ekuma, però, rappresenta un unicum nel settore.

Celle solari a banda intermedia

Per il loro lavoro due fisici sono partiti da un campo particolare della ricerca fotovoltaica. Parliamo delle celle solari a banda intermedia (IBSC – Intermediate Band Solar Cells), una tecnologia emergente che ha il potenziale per rivoluzionare la produzione di energia pulita. In questi sistemi la radiazione solare può eccitare i portatori dalla banda di valenza a quella di conduzione, oltre che direttamente, anche in maniera graduale. Come?  “Passando” per l’appunto attraverso stati di una banda intermedia, livelli energetici specifici posizionati all’interno della struttura elettronica di un materiale creato ad hoc. “Ciò consente a un singolo fotone di provocare generazioni multiple di eccitoni attraverso un processo di assorbimento in due fasi“, scrivono i due ricercatori sulla rivista Science Advances.

Nel nuovo materiale quantistico creato dagli scienziati della Lehigh University questi stati hanno livelli di energia all’interno dei gap di sottobanda ideali. Una volta testato all’interno di una cella fotovoltaica prototipale il materiale ha mostrato di poter migliorare l’assorbimento e la generazione di portatori nella gamma dello spettro dal vicino infrarosso alla luce visibile. 

La rivoluzione dei materiali quantistici

Il duo ha sviluppato il nuovo materiale sfruttando i “gap di van der Waals”, spazi atomicamente piccoli tra materiali bidimensionali stratificati. Questi spazi possono confinare molecole o ioni e gli scienziati dei materiali li usano comunemente per inserire, o “intercalare”, altri elementi per ottimizzare le proprietà dei materiali. Per la precisione hanno inserito atomi di rame tra strati di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. “Rappresenta un candidato promettente per lo sviluppo di celle solari ad alta efficienza di prossima generazione – ha sottolineato Ekuma – che svolgeranno un ruolo cruciale nell’affrontare il fabbisogno energetico globale“.

Rinnovabili •
About Author / Stefania Del Bianco

Giornalista scientifica. Da sempre appassionata di hi-tech e innovazione energetica, ha iniziato a collaborare alla testata fin dalle prime fasi progettuali, profilando le aziende di settore. Nel 2008 è entrata a far parte del team di redattori e nel 2011 è diventata coordinatrice di redazione. Negli anni ha curato anche la comunicazione e l'ufficio stampa di Rinnovabili.it. Oggi è Caporedattrice del quotidiano e, tra le altre cose, si occupa quotidianamente delle novità sulle rinnovabili, delle politiche energetiche e delle tematiche legate a tecnologie e mercato.