Il carbone in prigione

Combustibili fossili, deforestazione e cambiamenti dell’uso del suolo tra i principali responsabili dell’aumento della concentrazione dei principali gas serra in atmosfera. La soluzione è nella CCS?

Secondo gli ultimi rapporti pubblicati dall’IPCC, nel 2010 la concentrazione dei principali gas serra in atmosfera ha raggiunto il livello più alto dall’inizio dell’era industriale, le emissioni di CO2 sono infatti aumentate del 39%, raggiungendo il valore di 389 ppm. Le cause di ciò sono ben note e sono principalmente legate alle emissioni da sistemi di combustione dei combustibili fossili, della deforestazione e dei cambiamenti dell’uso del suolo. L’effetto principale di questi mutamenti sono i cambiamenti climatici, i cui disastrosi effetti sono visibili direttamente a tutti noi. Per rendere conto del peso sul territorio e sulle popolazioni di ciò basta citare due esempi nell’ambito del 2010 ed altri ancora più vicini a noi in questi ultimi giorni del 2011. Repubblica del 10 agosto 2010 titolava: “Il caldo in Russia ha fatto 5 mila morti”; “nei prossimi giorni le temperature saliranno a 44° nella zona di Mosca”; “Alluvioni e siccità, è nato un super-monsone che spaventa l’Europa. L’aria calda dal sud ha ormai modificato il clima”, e ancora l’ 11 agosto 2010: “mai a Milano 95 mm di pioggia ad agosto”.   Nel 2011 basta citare le rovinose piogge a Roma, Genova, Le Cinque Terre e Messina. Le loro conseguenze sono dovute alla tropicalizzazione del nostro clima, come diretta conseguenza dell’aumentata immissione dei gas serra in atmosfera. E’ possibile mitigare e contrastare questi fenomeni? I fenomeni possono essere contrastati mediante l’applicazione delle seguenti tecnologie:

Veicoli più efficienti; Uso ridotto di veicoli; Abitazioni più efficienti; Cattura e sequestro della CO2; Sostituzione delle attuali centrali elettriche a carbone con efficienti centrali a gas; Sostituzione delle attuali centrali elettriche a carbone con centrali nucleari; Sostituzione delle attuali centrali elettriche a carbone con generatori eolici di grandi dimensioni; Sostituzione delle attuali centrali elettriche a carbone con impianti fotovoltaici; Produzione di biocombustibili in sostituzione degli idrocarburi; Riduzione della deforestazione ed impianto di nuove foreste.

Tutte le misure sopra indicate incidono in modo diverso sui costi di produzione dell’energia, richiedono investimenti ed hanno tempi di realizzazione più o meno lunghi, hanno talvolta limiti tecnologici che ne impediscono un uso su larghissima scala. Appare dunque evidente che nessuna tecnologia da sola potrà conseguire la riduzione delle emissioni di CO2, necessaria per stabilizzarne la percentuale nell’atmosfera entro limiti “accettabili”. La cattura e il confinamento geologico della CO2 prodotta, può diventare quindi necessaria, almeno sino a quando l’adozione delle altre misure non consentirà di emettere significativamente meno CO2. IPCC ha prodotto uno “Special Report on Carbon Dioxide capture and storage” dove tale tecnologia è illustrata e definita come fattibile, per di più la Commissione Europea, il Parlamento Europeo e il Consiglio dell’Unione Europea hanno definito tale tecnologia  come un ponte necessario per mitigare l’effetto dei cambiamenti climatici (Direttiva 2009/31/EC  del 23 aprile 2009).

Il Processo di cattura e stoccaggio avviene in tre fasi distinte: la cattura della CO2 dagli impianti di produzione, il trasporto mediante pipelines ai siti di stoccaggio, il confinamento geologico definitivo.

La cattura negli impianti di produzione può avvenire sia prima della combustione, mediante il trattamento del combustibile (reforming del metano o gassificazione del carbone), sia dopo la combustione, agendo sui fumi mediante sistemi di assorbimento chimico e infine utilizzando la tecnologia dell’ ossi-combustione che consiste nell’utilizzare ossigeno anziché aria, che determina un flusso concentrato di CO2  facilmente catturabile.

L’idea di confinare geologicamente la CO2 deriva dall’osservazione degli analoghi naturali, è un concetto molto semplice e si può così esprimere: “Se un giacimento d’idrocarburi ha contenuto per milioni anni gli idrocarburi, alla stessa maniera può contenere per altrettanti milioni di anni la CO2”. La fattibilità del confinamento deriva invece dalle pratiche messe in atto dalle compagnie petrolifere per recuperare anche quel petrolio (EOR) che non raggiungerebbe la superficie o per mancanza di pressione nel serbatoio o perché difficilmente separabile dalla matrice che lo ingloba. La dissoluzione della CO2 abbassa infatti la viscosità del petrolio residuo, facilitandone la risalita nei pozzi. Tali pratiche di recupero assistito sono in atto da almeno 20 anni e hanno determinato la messa a punto di tecnologie idonee, per cui il pompaggio in strutture geologiche profonde non presenta importanti limiti tecnologici. Le possibilità di confinamento geologico della CO2 sono essenzialmente quattro e derivano da esperienze già condotte o in corso di sviluppo e ricerca:

– in giacimenti di petrolio ancora in produzione;

– in giacimenti di carbone non sfruttabili;

– in giacimenti esauriti di petrolio e gas;

– in acquiferi salini profondi e/o in campi geotermici non in produzione.

La CO2 può essere confinata sia come gas sia come fluido in condizioni supercritiche in una trappola naturale di gas, di petrolio o in un acquifero, limitato al tetto da uno strato a bassa permeabilità. La CO2 può anche reagire direttamente o indirettamente con i minerali e la materia organica presenti nelle formazioni geologiche diventando parte della matrice solida. In molte situazioni geologiche ci si può aspettare la formazione di carbonati di calcio, magnesio e ferro, e l’incorporamento della CO2 alla matrice rocciosa. Questa forma di mineral trapping della CO2 potrebbe creare delle forme stabili d’ intrappolamento, impedendone una possibile re-immissione nell’atmosfera.

La CO2 può essere sequestrata anche nei giacimenti di carbone non sfruttabili o perché troppo esigui o troppo profondi. Generalmente essi contengono una certa quantità di gas metano. Quando s’inietta della CO2, essa si fissa al carbone sostituendosi al  metano e liberandolo. Attraverso tale tecnica, il giacimento di carbone diventa un produttore di gas naturale, che può essere venduto per compensare i costi del confinamento della CO2.

Nel territorio nazionale sono disponibili numerose informazioni, seppure diversificate nelle differenti aree per qualità e quantità, circa la natura e la struttura geologica del sottosuolo. Queste strutture geologiche, per quanto riguarda principalmente gli acquiferi salini profondi, ma anche alcuni giacimenti di petrolio e gas depletati, sono per lo più localizzate nelle sequenze terrigene mio-plio- quaternarie. Esse sono localizzate sia nel settore dell’Avanfossa padano-adriatica, che nei bacini del margine tirrenico. Nel Final Report del Joule II Project, The underground disposal of Carbon Dioxide, è stata indicata per l’Italia una capacità di stoccaggio complessiva di 2.230 megatonnellate (Mt) di CO2, così suddivisa:

– 440 Mt di CO2 in acquiferi salini profondi, delle quali 353 Mt onshore e 87 Mt offshore;

– 1.790 Mt di CO2 in campi di olio e gas esauriti, sia onshore che offshore.

I possibili rischi connessi a operazioni di sequestro geologico su larga scala sono connessi essenzialmente alla fuoriuscita della CO2 iniettata, che possono essere causati da:

– pressione d’iniezione più alta di quella originaria del giacimento; in questo caso la maggiore pressione potrebbe indurre una frattura nel cap rock e determinare la fuoriuscita della CO2;

– presenza di faglie e fratture nella copertura impermeabile; il rischio si elimina con un’attenta preselezione dei siti, escludendo chiaramente quelli ove è presente un intenso campo di fratturazione. D’altra parte va evidenziato che lo studio della fuga di geogas dai campi fratturati, soggetti sia a tettonica distensiva sia compressiva, anche se non completo di tutto il territorio nazionale, evidenzia che solo una modestissima quantità di geogas raggiunge naturalmente la superficie lungo le vie di frattura;

– perdita da pozzi mal condizionati, durante e al termine delle operazioni d’iniezione; questo è un problema ingegneristico risolvibile prestando la massima attenzione alle operazioni d’ iniezione.

Stime eseguite negli USA, che non rappresentano quindi costi europei, né tanto meno italiani, indicano un costo complessivo della cattura e stoccaggio pari a 30-70 dollari per tonnellata di CO2. Di questi, tuttavia, soltanto 2-12 dollari per tonnellata sono attribuibili al sequestro geologico della CO2, mentre il costo delle operazioni di monitoraggio, sia durante che dopo le operazioni di iniezione, incidono sul totale generale soltanto per 0,05-0,10 dollari per tonnellata di CO2 stoccata.

Da un punto di vista generale si può affermare la fattibilità del sequestro geologico della CO2 in Italia, tuttavia è importante indicare ai nostri policy maker e stakeholder: “dove”, “quanta” e conseguentemente “per quanto tempo” è possibile sequestrare la CO2 senza rischi per le popolazioni e l’ambiente. Infine sarebbe d’importanza strategica iniziare la diffusione scientifica verso le popolazioni per ottenerne il consenso. Questo infatti potrebbe essere l’unico serio ostacolo al sequestro geologico della CO2.

Francesco Zarlenga – ENEA-Casaccia, UTRINN

 

Articolo precedenteHabitech inaugura la nuova “Isola Cogenerativa”
Articolo successivoBiomasse: il MSE stanzia 100 mln di euro per il Sud