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Le scienze marine forensi al servizio della giustizia

Le scienze forensi marine aiuteranno gli investigatori a valutare le interazioni tra i reperti giudiziari e l’ambiente marino

Fig. 3

 

(Rinnovabili.it) – Le scienze forensi possono essere sinteticamente definite come l’applicazione di tecniche e metodologie scientifiche alle tradizionali indagini investigative di carattere giudiziario per individuare le responsabilità civili e penali in relazione all’accertamento di un reato.

Negli ultimi anni, anche grazie al notevole progresso tecnologico e strumentale, numerose discipline “antiche” sono entrate nelle aule dei tribunali come nuovi strumenti in grado di fornire informazioni utili alla comprensione degli eventi e delle persone coinvolte in un crimine.

La Biologia, la Zoologia, la Botanica, l’Entomologia, l’Archeologia, l’Antropologia, la Geologia, la Genetica e molte altre discipline delle hanno sempre più importanza e hanno aggiunto il termine “Forense” dopo il loro nome.

Il termine Forense deriva dalla parola latina “forum” (piazza centrale delle antiche città romane), che era il luogo dove i Romani esercitavano la giustizia mediante processi pubblici.

Ultimamente il grande successo televisivo di diversi telefilm basati su un format dedicato alle indagini di polizia scientifica ha decretato, in qualche modo, l’importanza fondamentale di questi nuovi strumenti di indagine e le nuove professionalità ad essi associate provocando un effetto paradossalmente controproducente.

Lo hanno chiamato “effetto CSI”. E’ un fenomeno in rapida crescita nei tribunali americani, ove i giurati, influenzati dalle fiction televisive, tenderebbero ad avere attese irrealistiche in merito alle prove forensi e alle tecniche investigative alterando il sistema legale in modalità complesse e con ricadute di lungo periodo ancora non prevedibili.

I veri esperti delle scienze forensi non sono i protagonisti delle fiction televisive, né i “tuttologi” onnipresenti in televisione, ma professionisti e ricercatori di comprovata serietà che si adoperano ogni giorno con impegno e passione per dare un contributo reale alla risoluzione di crimini e, quindi, all’attuazione della giustizia.

A prescindere da questa “anomalia mediatica” il contributo delle scienze forensi alle indagini è fondamentale e anche nel nostro paese sono in crescita le offerte formative, anche accademiche, dedicate alle nuove figure professionali di questo specifico settore.

Alcune di queste sono il risultato di specializzazioni delle classiche scienze naturali che si dimostrano sempre più fondamentali come supporto operativo alle più tradizionali indagini da parte dell’Autorità Giudiziaria e degli Organi investigativi.

 

Un esempio rappresentativo è l’Entomologia Forense, la branca della Zoologia che studia i cicli vitali e l’etologia di quegli insetti che colonizzano i cadaveri dopo la morte. La sua applicazione in campo criminalistico si basa sul fatto che gli insetti, presenti praticamente in tutti gli ambienti, per le loro abitudini ecologiche ed etologiche, entrano facilmente in contatto con l’uomo e i suoi prodotti, e la loro attività e il loro sviluppo si modificano in risposta all’ambiente di vita e alle sue variazioni. Nel tempo si stanno sviluppando nuove branche dell’entomologia forense dedicate allo studio di questi animali come parassiti e infestanti dell’ambiente di vita dell’uomo (entomologia urbana), nei beni conservati (entomologia dei prodotti immagazzinati) e come organismi decompositori delle carcasse animali e dei cadaveri (entomologia veterinaria e medico-legale).

 

In particolare, nel caso dell’entomologia medico-legale, permette di correlare la presenza della biocenosi campionata sul substrato cadaverico e nelle immediate vicinanze, con i parametri ambientali specifici del luogo della morte, per poter stimare con sufficiente precisione una serie di dati, tra cui il P.M.I (intervallo post mortale), risalendo spesso anche al luogo del decesso e all’eventuale spostamento e/o occultamento di un corpo. L’analisi della presenza (mai casuale) degli insetti in un ambiente particolare, come la scena di un crimine, permette di ottenere informazioni importanti. Gli studi e le metodiche relative all’entomologia forense sono stati negli anni perfezionati e standardizzati e sono ad oggi riconosciuti come un prezioso strumento di indagine nelle mani degli inquirenti.scienze forensi

Anche il polline e le spore possono essere impiegati per le indagini forensi. La palinologia forense si occupa dello studio del polline rinvenuto sul corpo o nelle vie respiratorie di una vittima e dell’eventuale correlazione tra il luogo in cui è stato commesso il crimine e quello di occultamento del cadavere, e quindi tra un sospettato e il luogo del reato. Infine ricordiamo che, nell’ambito delle discipline delle scienze della terra, ai fini investigativi possono fornire aiuto le geoscienze attraverso le analisi pedologiche del suolo teatro dell’azione criminosa.

Questo approccio biologico-naturalistico alle scienze forensi è quasi esclusivamente dedicato ad indagini di crimini commessi in ambiente terrestre e sono ancora pochi gli esempi di approcci simili in ambienti acquatici specialmente per quanto riguarda quello marino.

Specialmente in un territorio come il nostro, le coste, rappresentano un’estesa linea di transizione tra le attività antropiche di natura terrestre e quelle marine nella quale, sempre più spesso, si devono affrontare problemi legati ad indagini giudiziarie di diversa natura.

Nonostante esista una reale esigenza in ambito investigativo per quanto riguarda numerose tipologie di reperti di importanza giudiziaria ritrovati in ambito marino le scienze forensi dedicate a questo importante comparto naturale e sociale sembrano ancora agli albori a livello internazionale e totalmente assenti nello scenario nazionale.

Nella ormai storica collaborazione fra l’ISMAR-CNR di Genova e l’Ateneo di Pavia è entrato recentemente a far parte il Dipartimento di Sanità Pubblica, Medicina Sperimentale e Forense nell’ambito del quale è attivo il Master di I livello in Scienze Forensi, svolto in collaborazione con il Ministero dell’Interno (Polizia di Stato).

Il Master nasce dalla pressante necessità di approccio multidisciplinare alle questioni di natura forense, che in questi ultimi anni ha introdotto nelle fasi di indagine e dibattimentali del processo penale l’uso di tecniche analitiche sofisticate.

L’approccio biologico-naturalistico delle scienze forensi è però quasi esclusivamente dedicato ad indagini su crimini connessi all’ambiente terrestre e studi simili in ambienti acquatici, specialmente per quanto riguarda quello marino, sembrano ancora agli albori a livello internazionale e totalmente assenti nello scenario nazionale.

Ma in un territorio come il nostro, le migliaia di chilometri di coste rappresentano un’estesa linea di transizione tra le attività antropiche di natura terrestre e quelle marine nella quale, sempre più spesso, si devono affrontare problemi legati ad indagini giudiziarie di diversa natura.biofouling

L’ISMAR di Genova si occupa, tra le diverse tematiche di ricerca, anche di biofouling, termine tecnico utilizzato in tutto il mondo per indicare un complesso fenomeno marino: l’incrostazione biologica. Si tratta di un fenomeno di colonizzazione da parte di numerosi organismi marini che provoca un processo di biodeterioramento profondamente differente in base alla natura del materiale che lo compone.

L’ interesse dell’ISMAR di Genova per il biofouling è nato da esigenze di carattere pratico legate alla prevenzione dell’insediamento degli organismi che lo compongono per proteggere le tecnologie marine (navi, piattaforme, strutture costiere, impianti industriali, pipe-line ecc).

In una visione strettamente antropocentrica infatti, questa incrostazione pulsante di vita è considerata per lo più come un danno, in quanto è in grado di creare seri problemi di biodeterioramento a tutte le strutture in contatto con l’acqua di mare (navi, piattaforme, industrie ecc), con costi di manutenzione stimati nell’ordine di miliardi di euro all’anno.

Ma il suo studio come evento biologico è estremamente affascinante e potrebbe avere risvolti interessanti dal punto di vista forense: la successione temporale degli organismi insediati su corpi di reato recuperati dal mare ed il loro studio dettagliato (specie, fasi di crescita, età, dimensioni ecc.) potrebbe essere utilizzato come un nuovo strumento di indagine per definire meglio il percorso spaziale e temporale del reperto nell’ambiente marino.

Per questa ragione si è pensato di organizzare nell’ambito del Corso di Scienze Forensi, coordinato dalla Prof. Simonetta Lambiase, Entomologa forense dell’Università di Pavia, una giornata didattica presso i laboratori del CNR-ISMAR e la stazione marina sperimentale ubicata al centro del Porto di Genova (vedi locandina evento).

In questa occasione il nostro gruppo di ricerca ha mostrato un possibile primo approccio alle Scienze Marine Forensi, con simulazioni pratiche e lezioni introduttive che hanno illustrato all’eterogenea platea degli allievi del Master i diversi processi di colonizzazione di numerose tipologie di substrati (organici e inorganici) da parte degli invertebrati da marini che, al pari di quelli terrestri, potrebbero in un futuro supportare indagini giudiziarie permettendo la collocazione spaziale e temporale di un reperto ritrovato in mare.

Come docente è stata inoltre presente la Prof. Laura Cornara, del Polo Botanico Hanbury del DISTAV, Università di Genova, che ha tenuto una lezione di Botanica Forense, corso attivo dal 2010 per gli studenti dei Corsi di Laurea magistrale in Scienze Biologiche e Scienze Naturali dell’ateneo genovese. La lezione ha illustrato l’applicazione delle conoscenze botaniche nell’investigazione e nella risoluzione di diversi quesiti legali, tra i quali casi di omicidio, crimini di guerra, piante che causano intossicazioni e piante “da droga”.

Il nostro Istituto già in passato, grazie alle competenze oceanografiche del Dott. Sandro Carniel, collega della sede ISMAR di Venezia, ha collaborato con la Procura di Chiavari per definire il percorso del cadavere della contessa Vacca Agusta sparito da Portofino e comparso a Hyeres in Francia, a più di 350 km di distanza.

 

Altre tipologie di indagine legate a questioni legali tra armatori sono state risolte recentemente dal nostro gruppo di ricerca della sede di Genova mediante l’analisi di alcuni organismi cresciuti sulle carene delle navi (balani) durante i lunghi viaggi intercontinentali smentendo dichiarazioni di rotte percorse che in realtà non erano biologicamente possibili.

L’obiettivo per il futuro è quello quindi di sviluppare attività di ricerca e sperimentazione a carattere multidisciplinare nel campo delle Scienze Marine per assicurare lo sviluppo di conoscenze e metodologie nel contesto delle Scienze Forensi, cercando di trasferire i risultati raggiunti ad un livello applicativo per le diverse esigenze investigative a livello nazionale e internazionale.

Tutto questo in perfetta sintonia con la recente collaborazione che recentemente Il presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Luigi Nicolais e il direttore centrale della Direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato, Gaetano Chiusolo, hanno promosso siglando un accordo quadro per la promozione di iniziative congiunte su tematiche che riguardano il settore delle scienze forensi, la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.

L’accordo inaugura un modo nuovo di intendere e utilizzare i risultati e le metodologie sviluppate in ambito scientifico ed evidenzia quanto la ricerca scientifica possa contribuire a vantaggio dei cittadini e della società innovando profondamente l’azione e le metodologie investigative e riducendone i margini di incertezza e di errore.

Probabilmente verremo presto anticipati da qualche nuovo personaggio televisivo che si occuperà di Scienze Marine Forensi in qualche mega-laboratorio statunitense ma per il momento, come ricercatori italiani, cercheremo di affrontare, con la serietà professionale che merita, la sfida che questa nuova disciplina scientifica ci impone.


di Marco Faimali – ISMAR-CNR. Segui il blog 
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Rinnovabili • filiere delle rinnovabili

Decreto FERX, gli stakeholder chiedono più chiarezza e trasparenza

Il Ministero dell'Ambiente pubblica gli esiti della consultazione pubblica sul Decreto Ministeriale FER X, chiusa lo scorso settembre. Dai 46 soggetti partecipanti emerge l'esigenza di conoscere per tempo tutte le informazioni utili alla programmazione degli investimenti nelle rinnovabili. Chiesti chiarimenti sul processo autorizzativo e sulle tempistiche

decreto ferx
Foto di Rabih Shasha su Unsplash

Decreto FERX, nuovi spunti di riflessione

Servono maggiori informazioni sui coefficienti sul prezzo d’aggiudicazione, sui criteri di priorità, sulla documentazione per l’accesso al meccanismo e sulle tipologie di interventi ammessi. In particolare quando si tratta di progetti di “rifacimento” e “potenziamento”. Queste alcune delle principali richieste emerse dalla consultazione pubblica sul Decreto FERX. La scorsa estate il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica aveva pubblicato lo schema del provvedimento per una raccolta di pareri da parte degli stakeholder, con l’obiettivo di condividerne le logiche. Oggi il MASE rende noti gli esiti di tale consultazione puntando i riflettori sugli spunti e le richieste emerse da parte dei 46 soggetti partecipanti. 

Gli esiti della consultazione pubblica

Ricordiamo che il Decreto FERX nasce con lo scopo di definire un meccanismo di supporto espressamente dedicato ad impianti a fonti rinnovabili con costi di generazione vicini alla competitività. Come? Tramite contratti CfD a valere sull’energia elettrica prodotta dagli impianti. Con un accesso diretto per quelli di taglia inferiore al MW, e tramite aste al ribasso per quelli di taglia uguale o superiore al MW. Ed è proprio su queste due modalità che arrivano le prime considerazioni.

Per la maggior parte dei soggetti che hanno risposto alla consultazione, il contingente di 5 GW per gli impianti FER ad accesso diretto non sarebbe sufficiente, soprattutto vista la grande attenzione che stanno ricevendo al livello di investimento i sistemi di piccola taglia.

Per quanto riguarda l’accesso tramite asta, invece, il parere generale condivide i contingenti individuati, che secondo l’ultima bozza pubblicata oggi sarebbero: per il fotovoltaico 45 GW; per l’eolico di 16,5 GW; per l’idroelettrico di 630 MW; per i gas residuati 20 MW. “Tuttavia – si legge nel documento del MASE – congiuntamente alla risposta positiva sono state proposte diverse modifiche (aumento di uno specifico contingente, creazione di nuovo contingente, meccanismi di riallocazione della potenza non assegnata, ridefinizione dei contingenti al fine di favorire lo sviluppo dei PPA, etc.)”. Tra gli spunti emersi c’è la proposta di contingenti separati tra il fotovoltaico a terra e sul tetto.

Proposti nuovi requisiti di accesso e tempistiche

In tema requisiti d’accesso, alcuni soggetti chiedono l’incremento della soglia di potenza per l’accesso diretto, l’aggiunta dei criteri ESG, la reintroduzione del requisito specifico che attesti la capacità finanziaria ed economica di chi partecipa al meccanismo del Decreto FERX.

Con riferimento ai tempi massimi individuati per la realizzazione degli interventi, la consultazione ha evidenziato un forte distaccamento con le aspettative degli operatori. Per quanto detto diversi soggetti propongono per una o più fonti l’innalzamento dei tempi previsti, chiedendo di tenere in considerazione parametri quali, la potenza e/o la tipologia d’intervento, l’ottenimento dei titoli autorizzativi, i tempi di realizzazione della connessione e quelli dovuti agli approvvigionamenti, che sottolineano, potrebbero oltretutto determinare un aumento dei costi, visto anche i meccanismi incentivanti”, si legge ancora nel documento.

Per i tempi di comunicazione della data d’entrata in esercizio dell’impianto, emerge nel complesso l’esigenza di un prolungamento, aggiungendo da più 60 giorni a 12 mesi. Viene anche evidenziata una certa contrarietà all’obbligo per gli operatori di impianti rinnovabili non programmabili che stipula un contratto CfD ad abilitarsi alla fornitura dei servizi di dispacciamento.

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Rinnovabili • batteria ibrida al sodio

Dalla Corea la batteria ibrida al sodio che si ricarica in pochi secondi

Un gruppo di scienziati del KAIST ha sviluppato una batteria a ioni di sodio ad alta energia, ad alta potenza e di lunga durata

batteria ibrida al sodio
Foto di danilo.alvesd su Unsplash

Quando le batteria a ioni sodio incontrato i supercondensatori a ioni sodio

Arriva dalla Corea del Sud la prima batteria ibrida al sodio in grado di battere la tecnologia a ioni di litio a mani basse. Con ottime prestazioni lato di capacità di accumulo, potenza, velocità di carica e durata, come dimostra l’articolo pubblicato sulla rivista scientifica Energy Storage Materials (testo in inglese).

Nel 2020 le batterie a ioni sodio (Na+) hanno raggiunto prestazioni comparabili a quelle degli ioni di litio in termini di capacità e durata del ciclo in condizioni di laboratorio. Da allora il segmento ha continuato a macinare grandi progressi, spinto dall’esigenza globale di trovare una tecnologia di accumulo più economica delle ricaricabili al litio e meno dipendente dalle attuali catene di approvvigionamento dei materiali critici. L’ultimo grande risultato nel campo è quello segnato da un gruppo di scienziati del KAIST, il Korea Advanced Institute of Science and Technology.

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Il team guidato dal professor Jeung Ku Kang del Dipartimento di Scienza e Ingegneria dei Materiali ha messo a punto una batteria ibrida agli ioni di sodio dalle prestazioni eccellenti e in grado di ricaricarsi in pochi secondi. Il segreto? Un’architettura che integra materiali anodici propri delle batterie con catodi adatti ai supercondensatori.

Batteria ibrida al sodio, prestazioni record

In realtà non si tratta di un approccio nuovo. Gli stoccaggi ibridi con Na+ sono emersi negli ultimi anni come una promettente applicazione nel campo dell’energy storage in grado di superare i punti deboli degli accumulatori a ioni di sodio più conosciuti.

Tradizionalmente questo metallo è usato e studiato in due tipi di dispositivi di stoccaggio: batterie e condensatori. Le prime, come spiegato poc’anzi, forniscono oggi una densità di energia relativamente elevata ma sono caratterizzate da una lenta cinetica di ossidoriduzione, che si traduce in una bassa densità di potenza e una scarsa ricaricabilità. I secondi invece hanno un’elevata densità di potenza dovuta all’accumulo di carica tramite rapido adsorbimento di ioni superficiali, ma una densità di energia estremamente bassa.

Tuttavia unire le due tecnologie impiegando catodi di tipo condensatore e degli anodi di tipo batteria, non ha dato subito i risultati sperati. La causa è da ricercare soprattutto nello squilibrio cinetico tra i due tipi di elettrodi.

Nuovi materiali per catodo e anodo

Per arginare il problema il team sudcoreano ha utilizzato sviluppato un nuovo materiale anodico con cinetica migliorata attraverso l’inclusione di materiali attivi fini nel carbonio poroso derivato da strutture metallo-organiche. Inoltre, ha sintetizzato un materiale catodico ad alta capacità e la combinazione dei due ha consentito lo sviluppo di un sistema di accumulo di ioni sodio che ottimizza l’equilibrio e riduce al minimo le disparità nei tassi di accumulo di energia tra gli elettrodi.

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La cella completamente assemblata supera per densità di energia le batterie commerciali agli ioni di litio e presenta le caratteristiche della densità di potenza dei supercondensatori. Nel dettaglio la batteria ibrida al sodio si ricarica rapidamente e raggiunge una densità di energia di 247 Wh/kg e una densità di potenza di 34.748 W/kg. Inoltre gli scienziati hanno registrato una stabilità del ciclo con efficienza Coulombica pari a circa il 100% su 5000 cicli di carica-scarica.

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About Author / Stefania Del Bianco

Giornalista scientifica. Da sempre appassionata di hi-tech e innovazione energetica, ha iniziato a collaborare alla testata fin dalle prime fasi progettuali, profilando le aziende di settore. Nel 2008 è entrata a far parte del team di redattori e nel 2011 è diventata coordinatrice di redazione. Negli anni ha curato anche la comunicazione e l'ufficio stampa di Rinnovabili.it. Oggi è Caporedattrice del quotidiano e, tra le altre cose, si occupa quotidianamente delle novità sulle rinnovabili, delle politiche energetiche e delle tematiche legate a tecnologie e mercato.


Rinnovabili • fotovoltaico materiale quantistico

Fotovoltaico, ecco il materiale quantistico con un’efficienza del 190%

Un gruppo di scienziati della Lehigh University ha sviluppato un materiale dotato di una efficienza quantistica esterna di 90 punti percentuali sopra quella delle celle solari tradizionali

fotovoltaico materiale quantistico
via Depositphotos

Nuovo materiale quantistico con un assorbimento solare medio dell’80%

Atomi di rame inseriti tra strati bidimensionali di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. Questa la ricetta messa a punto dai fisici Srihari Kastuar e Chinedu Ekuma nei laboratori della Lehigh University, negli Stati Uniti, per dare una svecchiata alla prestazioni delle celle solari. Il duo di ricercatori ha così creato un nuovo materiale quantistico dalle interessanti proprietà fotovoltaiche. Impiegato come strato attivo in una cella prototipo, infatti, il nuovo materiale ha mostrato un assorbimento solare medio dell’80%, un alto tasso di generazione di portatori fotoeccitati e un’efficienza quantistica esterna (EQE) record del 190%. Secondo gli scienziati il risultato raggiunto supera di gran lunga il limite teorico di efficienza di Shockley-Queisser per i materiali a base di silicio e spinge il campo dei materiali quantistici per il fotovoltaico a nuovi livelli. 

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L’efficienza quantistica esterna

Tocca fare una precisazione. L’efficienza quantistica esterna non va confusa con l’efficienza di conversione, il dato più celebre quando si parla di prestazioni solari. L’EQE rappresenta il rapporto tra il numero di elettroni che danno luogo a una corrente in un circuito esterno e il numero di fotoni incidenti ad una precisa lunghezza d’onda

Nelle celle solari tradizionali, l’EQE massimo è del 100%, tuttavia negli ultimi anni alcuni materiali e configurazioni avanzate hanno dimostrato la capacità di generare e raccogliere più di un elettrone da ogni fotone ad alta energia incidente, per un efficienza quantistica esterna superiore al 100%. Il risultato di Kastua e Ekuma, però, rappresenta un unicum nel settore.

Celle solari a banda intermedia

Per il loro lavoro due fisici sono partiti da un campo particolare della ricerca fotovoltaica. Parliamo delle celle solari a banda intermedia (IBSC – Intermediate Band Solar Cells), una tecnologia emergente che ha il potenziale per rivoluzionare la produzione di energia pulita. In questi sistemi la radiazione solare può eccitare i portatori dalla banda di valenza a quella di conduzione, oltre che direttamente, anche in maniera graduale. Come?  “Passando” per l’appunto attraverso stati di una banda intermedia, livelli energetici specifici posizionati all’interno della struttura elettronica di un materiale creato ad hoc. “Ciò consente a un singolo fotone di provocare generazioni multiple di eccitoni attraverso un processo di assorbimento in due fasi“, scrivono i due ricercatori sulla rivista Science Advances.

Nel nuovo materiale quantistico creato dagli scienziati della Lehigh University questi stati hanno livelli di energia all’interno dei gap di sottobanda ideali. Una volta testato all’interno di una cella fotovoltaica prototipale il materiale ha mostrato di poter migliorare l’assorbimento e la generazione di portatori nella gamma dello spettro dal vicino infrarosso alla luce visibile. 

La rivoluzione dei materiali quantistici

Il duo ha sviluppato il nuovo materiale sfruttando i “gap di van der Waals”, spazi atomicamente piccoli tra materiali bidimensionali stratificati. Questi spazi possono confinare molecole o ioni e gli scienziati dei materiali li usano comunemente per inserire, o “intercalare”, altri elementi per ottimizzare le proprietà dei materiali. Per la precisione hanno inserito atomi di rame tra strati di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. “Rappresenta un candidato promettente per lo sviluppo di celle solari ad alta efficienza di prossima generazione – ha sottolineato Ekuma – che svolgeranno un ruolo cruciale nell’affrontare il fabbisogno energetico globale“.

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