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L’architettura che respira

Un materiale riciclabile, ignifugo, autopulente ed estremamente resistente, trasparente, ma con un peso 99 volte inferiore a quello del vetro. Si tratta dell’ETFE un materiale del passato che sta cambiando il presente.

 

La qualità dell’architettura, i livelli di efficienza energetica e la sicurezza degli edifici, sono aspetti profondamente legati al valore dei materiali che costruiscono queste strutture. La sperimentazione scientifica e tecnologica di questo settore è in continua evoluzione, tanto da produrre annualmente una quantità infinita di varianti per ogni genere di utilizzo.

A volte però, occorrono decenni per accorgersi delle potenzialità di una semplice scoperta che, forse per casualità, è approdata al mondo dell’architettura, provenendo da tutt’altra strada. E’ questo il caso di un particolare materiale, oggi comunemente utilizzato per la costruzione di facciate altamente efficienti, ma con origini decisamente differenti.

Si tratta dell’ETFE (ossia Etilene Tetrafluoro Etilene), un fluoro polimero termoplastico, ovvero un polimero (una macromolecola costituita da una catena di molecole uguali), contenente atomi di fluoro, che grazie al loro legame eccezionalmente resistente, danno vita ad un materiale plastico trasparente in grado di sopportare alti livelli di sollecitazioni termiche ed aggressioni chimiche. Si tratta di rivestire gli edifici con pannelli o cuscini pneumatici di ETFE, inseriti generalmente in una struttura leggera in alluminio.

 

Per ripercorrere la storia di questo materiali, dobbiamo tornare agli anni ’40 quando, quasi per caso, il chimico Roy Plunkett scoprì questo polimero all’interno di una bombola di tetrafluoroetene occlusasi a seguito di un errore: una sostanza semisolida, con una resistenza agli agenti chimici mai sperimentata fino ad allora. Ovviamente la prima applicazione a cui si pensò, fu il settore militare. Ma i giorni di gloria dell’ETFE applicato all’architettura, erano ancora lontani.

Trent’anni dopo infatti, l’azienda Du Pont (la celebre produttrice del Teflon) decise di servirsi del brevetto per sperimentare il primo fluoro polimero termoplastico, riservandogli un ruolo si di isolante, ma per il settore aeronautico.

Finalmente nei primi anni ’80, uno studente d’ingegneria meccanica di Brema, Stefan Lehnert, appassionato velista, ricercando nuovo tecnologie per la vela, riconobbe nell’ETFE le sue incredibili potenzialità per l’industria delle costruzioni. Da questa intuizione è nata la Vector Folitec, azienda leader nella produzione e design di involucri e pannelli in Etfe, tutt’oggi tra le più ricercate tra gli studi di architettura e le e società edilizie di tutto il mondo.

 

 

Siamo nel 1982 quando ufficialmente venne costruito il primo edificio impiegante l’ETFE, la “Mangrove House” un grande padiglione destinata allo Zoo olandese di Arnhem, anche se il progetto che rese davvero famoso questo materiale fu l”Eden Project”,  un’enorme serra geodetica costruita in Cornovaglia, considerato uno dei migliori risultati dell’integrazione tra l’architettura sostenibile ed il recupero ambientale.

Iniziato nel 1996 secondo il progetto dell’architetto Nicholas Grimshaw, le gigantesche cupole chiamate Biomi che formano l’Eden Project, sono in grado di ricreare il clima umido tropicale del Sudamerica ed il clima temperato del mediterraneo, dando una nuova vita alla voragine lasciata nel terreno dalla precedente cava di argilla.

E’ l’inizio di una nuova serie di sperimentazioni ingegneristiche ed architettoniche, degne del Buckminster Fuller degli anni migliori.

 

 

INNOVAZIONE SOSTENIBILE

 

Il perché l’architettura abbia scelto questo materiale, è facilmente comprensibile elencando le sue innumerevoli potenzialità.

In primo luogo, l’ETFE è una delle molecole organiche più stabili che siano mai state prodotte: la sua durabilità può raggiungere i 40 anni di vita, semplicemente assicurando una costante manutenzione, inoltre al termine del suo ciclo di vita, la membrana viene semplicemente fusa e riutilizzata, con una percentuale di riciclaggio del 100%.

E’ un materiale auto-pulente, che grazie alla sua particolare composizione chimica, mantiene inalterata la sua trasparenza anche con il passare delle stagioni: questa caratteristica lo rende molto utile per la realizzazione di grandi coperture o tensostrutture, dove il principale problema di manutenzione è dovuto alla sua pulizia.

Pur pesando solo un centesimo rispetto al vetro (350g/mq), le membrane in ETFE sono in grado di sopportare fino a 400 volte il loro peso, mantenendo un livello di trasparenza molto elevato.

 

Gli elementi in ETFE infatti, consentono al 95% della luce di filtrare all’interno dell’edificio, con un irraggiamento dai 400 ai 600 Nm, prestandosi particolarmente bene anche al controllo selettivo dei raggi UV. Ad esempio, per un involucro costituito da tre strati di ETFE (strato superiore di 200 micron, strato intermedio di 100 micron, strato inferiore i 200 micron), il livello di luce trasmessa con incidenza verticale è portato al 70%, un valore ottimale per il comfort di persone, animali o piante.

A differenza di altre membrane di architettura, il termopolimero ETFE è realizzato per estrusione, questo particolare lo rende paragonabile ad una resina che in fase di produzione viene filata in una sottile pellicola molto resistente.

Tipicamente la fase di costruzione, prevede l’assemblaggio per più strati sovrapposti, saldati insieme in pannelli per tensostrutture o gonfiati in “cuscini”: un sistema che ricrea una vera e propria camera d’aria con proprietà termiche molto elevate.

Infatti, controllando l’aria incamerata, è possibile modificare il grado di permeabilità alla luce ed al calore dei singoli elementi, influendo sul livello d’isolamento dell’involucro e sulle relative prestazioni energetiche.

 

 

LE MAGICHE APPLICAZIONI ARCHITETTONICHE

 


Gli ultimi decenni hanno visto un fervido ritorno di questo materiale, soprattutto dopo le Olimpiadi cinesi del 2008 ed il suo celebre “Water Cube”, il Centro Acquatico Nazionale di Pechino.

In questo splendido esempio dell’applicazione dell’ETFE, il polimero termoplastico è servito a disegnare le forme della singolare facciata. L’involucro esterno e la copertura del Water Cube sono infatti originati da 4.000 “cuscinetti” composti da una doppia membrana in ETFE, che oltre ad assumere un ruolo determinante nell’estetica della costruzione, trasformano la struttura in un esempio di ecosostenibilità, permettendo alla luce naturale di filtrare, trattenendo invece il calore in eccesso. A conti fatti l’edificio risparmia più del 30% sui costi per l’energia, il 55% per l’elettricità e riduce le spese di pulizia e manutenzione della struttura praticamente a zero.

Ma la sperimentazione non si è fermata.

La recente evoluzione tecnologica ha portato a sostituire l’aria pressurizzata, contenuta all’interno dei cuscini in ETFE, con una speciale miscela d’azoto; questo gas, affiancato all’utilizzo di fotosensori esterni, rende l’intera struttura autonoma e sensibile ai cambiamenti climatici, agendo direttamente sui singoli elementi che, a seconda delle necessità, vengono gonfiati o sgonfiati per garantire una minore trasmittanza termica.

 

 

Recentemente questo particolare utilizzo della membrana in ETFE è stata applicata all’edificio vincitore dei World Architecture Festival 2011, il Media ICT di Barcellona, consentendo una riduzione complessiva delle emissioni nocive, pari al 90%. In questo specifico caso la miscela di azoto contenuta nei cuscini di ETFE, modifica la sua permeabilità alla luce a seconda dell’incidenza dei raggi solari, creando uno strato filtrante tra esterno ed interno e garantendo prestazioni energetiche di grande qualità.

L’edificio respira, comportandosi metaforicamente come una nuvola, che oppone ai raggi solari particolarmente intensi, uno strato schermante opaco, formato in questo caso dal gas a base di azoto. Ovviamente durante il periodo invernale, quando al contrario è fondamentale mantenere una temperatura interna superiore, i cuscinetti in ETFE ritrovano la loro trasparenza, lasciando penetrare i raggi solari nell’edificio senza disperdere calore.

 

Le applicazioni delle membrane in ETFE hanno portato un notevole guadagno in termini di sostenibilità, affiancando al valore di risparmio energetico passivo, una componente decisamente contemporanea per la produzione attiva dell’energia.

Il progetto vincitore del concorso per la costruzione della futura ambasciata americana di Londra, dell’architetto Kieran Timberlake ne è un valido esempio. Ancora in fase di realizzazione, l’involucro esterno dell’edificio sarà formato da elementi alternati di vetro antiproiettile e membrane in ETFE, a cui verranno inseriti frangisole fotovoltaici a film sottile con la duplice funzione di schermare gli ambienti interni dalla luce diretta del sole e di produrre energia.

 

 

Tra gli esempi più celebri di architetture realizzate con l’impiego delle membrane in ETFE l’Allianz Arena di Monaco di Herzog & de Meuron lo stadio costruito per i mondiali del 2006, la nuova sede della Regione Lombardia ad opera dello studio newyorkese Pei Cobb Freed & Partners e l’Istituto di Scienza e Tecnologia di Masdar e la Torre di controllo dell’aeroporto di Abu Dhabi entrambi in costruzione.

Dunque applicazioni infinite e continue per le sperimentazioni materiche legate all’architettura sostenibile che, come nel caso dell’ETFE, trasformano la tecnologia del passato nella rivoluzione del futuro.

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About Author / Alessia Bardi

Si è laureata al Politecnico di Milano inaugurando il primo corso di Architettura Ambientale della Facoltà. L’interesse verso la sostenibilità in tutte le sue forme è poi proseguito portandola per la tesi fino in India, Uganda e Galizia. Parallelamente alla carriera di Architetto ha avuto l’opportunità di collaborare con il quotidiano Rinnovabili.it scrivendo proprio di ciò che più l’appassiona. Una collaborazione che dura tutt’oggi come coordinatrice delle sezioni Greenbuilding e Smart City. Portando avanti la sua passione per l’arte, l’innovazione ed il disegno ha inoltre collaborato con un team creativo realizzando una linea di gioielli stampati in 3D.


Rinnovabili • Batterie al sodio allo stato solido

Batterie al sodio allo stato solido, verso la produzione di massa

Grazie ad un nuovo processo sintetico è stato creato un elettrolita di solfuro solido dotato della più alta conduttività per gli ioni di sodio più alta mai registrata. Circa 10 volte superiore a quella richiesta per l'uso pratico

Batterie al sodio allo stato solido
via Depositphotos

Batterie al Sodio allo Stato Solido più facili da Produrre

La batterie allo stato solido incarnano a tutti gli effetti il nuovo mega trend dell’accumulo elettrochimico. E mentre diverse aziende automobilistiche tentano di applicare questa tecnologia agli ioni di litio, c’è chi sta percorrendo strade parallele. É il caso di alcuni ingegneri dell’Università Metropolitana di Osaka, in Giappone. Qui i professori Osaka Atsushi Sakuda e Akitoshi Hayash hanno guidato un gruppo di ricerca nella realizzazione di batterie al sodio allo stato solido attraverso un innovativo processo di sintesi.

Batterie a Ioni Sodio, nuova Frontiera dell’Accumulo

Le batterie al sodio (conosciute erroneamente anche come batterie al sale) hanno conquistato negli ultimi anni parecchia attenzione da parte del mondo scientifico e industriale. L’abbondanza e la facilità di reperimento di questo metallo alcalino ne fanno un concorrente di primo livello dei confronti del litio. Inoltre l’impegno costante sul fronte delle prestazioni sta portando al superamento di alcuni svantaggi intrinseci, come la minore capacità. L’ultimo traguardo raggiunto in questo campo appartiene ad una ricerca cinese che ha realizzato un unità senza anodo con una densità di energia superiore ai 200 Wh/kg.

Integrare questa tecnologia con l’impiego di elettroliti solidi potrebbe teoricamente dare un’ulteriore boost alla densità energetica e migliorare i cicli di carica-scarica (nota dolente per le tradizionali batterie agli ioni di sodio). Quale elettrolita impiegare in questo caso? Quelli di solfuro rappresentano una scelta interessante grazie alla loro elevata conduttività ionica e lavorabilità. Peccato che la sintesi degli elettroliti solforati non sia così semplice e controllabile. Il che si traduce in un’elevata barriera per la produzione commerciale delle batterie al sodio allo stato solido.

Un Flusso di Polisolfuro reattivo

É qui che si inserisce il lavoro del team di Sakuda a Hayash. Gli ingegneri hanno messo a punto un processo sintetico che impiega sali fusi di polisolfuro reattivo per sviluppare elettroliti solidi solforati. Nel dettaglio utilizzando il flusso di polisolfuro Na2Sx come reagente stechiometrico, i ricercatori hanno sintetizzato due elettroliti di solfuri di sodio dalle caratteristiche distintive, uno dotato della conduttività degli ioni di sodio più alta al mondo (circa 10 volte superiore a quella richiesta per l’uso pratico) e uno vetroso con elevata resistenza alla riduzione.

Questo processo è utile per la produzione di quasi tutti i materiali solforati contenenti sodio, compresi elettroliti solidi e materiali attivi per elettrodi“, ha affermato il professor Sakuda. “Inoltre, rispetto ai metodi convenzionali, rende più semplice ottenere composti che mostrano prestazioni più elevate, quindi crediamo che diventerà una metodologia mainstream per il futuro sviluppo di materiali per batterie al sodio completamente allo stato solido“.  I risultati sono stati pubblicati su Energy Storage Materials and Inorganic Chemistry .

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About Author / Stefania Del Bianco

Giornalista scientifica. Da sempre appassionata di hi-tech e innovazione energetica, ha iniziato a collaborare alla testata fin dalle prime fasi progettuali, profilando le aziende di settore. Nel 2008 è entrata a far parte del team di redattori e nel 2011 è diventata coordinatrice di redazione. Negli anni ha curato anche la comunicazione e l'ufficio stampa di Rinnovabili.it. Oggi è Caporedattrice del quotidiano e, tra le altre cose, si occupa quotidianamente delle novità sulle rinnovabili, delle politiche energetiche e delle tematiche legate a tecnologie e mercato.


Rinnovabili • fotovoltaico materiale quantistico

Fotovoltaico, ecco il materiale quantistico con un’efficienza del 190%

Un gruppo di scienziati della Lehigh University ha sviluppato un materiale dotato di una efficienza quantistica esterna di 90 punti percentuali sopra quella delle celle solari tradizionali

fotovoltaico materiale quantistico
via Depositphotos

Nuovo materiale quantistico con un assorbimento solare medio dell’80%

Atomi di rame inseriti tra strati bidimensionali di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. Questa la ricetta messa a punto dai fisici Srihari Kastuar e Chinedu Ekuma nei laboratori della Lehigh University, negli Stati Uniti, per dare una svecchiata alla prestazioni delle celle solari. Il duo di ricercatori ha così creato un nuovo materiale quantistico dalle interessanti proprietà fotovoltaiche. Impiegato come strato attivo in una cella prototipo, infatti, il nuovo materiale ha mostrato un assorbimento solare medio dell’80%, un alto tasso di generazione di portatori fotoeccitati e un’efficienza quantistica esterna (EQE) record del 190%. Secondo gli scienziati il risultato raggiunto supera di gran lunga il limite teorico di efficienza di Shockley-Queisser per i materiali a base di silicio e spinge il campo dei materiali quantistici per il fotovoltaico a nuovi livelli. 

leggi anche Fotovoltaico in perovskite, i punti quantici raggiungono un’efficienza record

L’efficienza quantistica esterna

Tocca fare una precisazione. L’efficienza quantistica esterna non va confusa con l’efficienza di conversione, il dato più celebre quando si parla di prestazioni solari. L’EQE rappresenta il rapporto tra il numero di elettroni che danno luogo a una corrente in un circuito esterno e il numero di fotoni incidenti ad una precisa lunghezza d’onda

Nelle celle solari tradizionali, l’EQE massimo è del 100%, tuttavia negli ultimi anni alcuni materiali e configurazioni avanzate hanno dimostrato la capacità di generare e raccogliere più di un elettrone da ogni fotone ad alta energia incidente, per un efficienza quantistica esterna superiore al 100%. Il risultato di Kastua e Ekuma, però, rappresenta un unicum nel settore.

Celle solari a banda intermedia

Per il loro lavoro due fisici sono partiti da un campo particolare della ricerca fotovoltaica. Parliamo delle celle solari a banda intermedia (IBSC – Intermediate Band Solar Cells), una tecnologia emergente che ha il potenziale per rivoluzionare la produzione di energia pulita. In questi sistemi la radiazione solare può eccitare i portatori dalla banda di valenza a quella di conduzione, oltre che direttamente, anche in maniera graduale. Come?  “Passando” per l’appunto attraverso stati di una banda intermedia, livelli energetici specifici posizionati all’interno della struttura elettronica di un materiale creato ad hoc. “Ciò consente a un singolo fotone di provocare generazioni multiple di eccitoni attraverso un processo di assorbimento in due fasi“, scrivono i due ricercatori sulla rivista Science Advances.

Nel nuovo materiale quantistico creato dagli scienziati della Lehigh University questi stati hanno livelli di energia all’interno dei gap di sottobanda ideali. Una volta testato all’interno di una cella fotovoltaica prototipale il materiale ha mostrato di poter migliorare l’assorbimento e la generazione di portatori nella gamma dello spettro dal vicino infrarosso alla luce visibile. 

La rivoluzione dei materiali quantistici

Il duo ha sviluppato il nuovo materiale sfruttando i “gap di van der Waals”, spazi atomicamente piccoli tra materiali bidimensionali stratificati. Questi spazi possono confinare molecole o ioni e gli scienziati dei materiali li usano comunemente per inserire, o “intercalare”, altri elementi per ottimizzare le proprietà dei materiali. Per la precisione hanno inserito atomi di rame tra strati di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. “Rappresenta un candidato promettente per lo sviluppo di celle solari ad alta efficienza di prossima generazione – ha sottolineato Ekuma – che svolgeranno un ruolo cruciale nell’affrontare il fabbisogno energetico globale“.

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About Author / Stefania Del Bianco

Giornalista scientifica. Da sempre appassionata di hi-tech e innovazione energetica, ha iniziato a collaborare alla testata fin dalle prime fasi progettuali, profilando le aziende di settore. Nel 2008 è entrata a far parte del team di redattori e nel 2011 è diventata coordinatrice di redazione. Negli anni ha curato anche la comunicazione e l'ufficio stampa di Rinnovabili.it. Oggi è Caporedattrice del quotidiano e, tra le altre cose, si occupa quotidianamente delle novità sulle rinnovabili, delle politiche energetiche e delle tematiche legate a tecnologie e mercato.