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Rinnovabili o riforestazione? Cos’è meglio per mitigare il climate change?

Tra le tante iniziative (molto pop) per la soluzione della Crisi climatica, c’è quella di riforestare il Pianeta con mille miliardi di piante per assorbire CO2 e ridurre l’Effetto Serra. Ma siamo sicuri non sia meglio investire in rinnovabili? Confronto onesto tra strategie di mitigazione del Climate change

rinnovabili alberi

di Matteo Grittani

(Rinnovabili.it) – Risolvere al meglio la Crisi climatica, su questo siamo (quasi) tutti d’accordo. Cina, Usa, Europa e tutti gli altri giganti emettitori del globo sembrano finalmente concordi negli obiettivi: mitigare il cambiamento climatico attraverso la decarbonizzazione delle economie. A quanto pare però, come spesso accade, è sul “foglio del come” che nascono le divergenze. Che fare allora? Quale strategia seguire per dare seguito ai target ambiziosi fissati nel 2015 con COP21? C’è un’iniziativa, mediaticamente molto fortunata e anche piuttosto “pop”, che propone di piantare mille miliardi di nuovi alberi per assorbire la CO2 atmosferica in eccesso e ridurre il fardello dell’Effetto serra. Un metodo semplice, a basso costo e antico come il nostro Pianeta: tanti alberi, assorbimento dell’anidride carbonica tramite fotosintesi e il gioco è fatto. Funzionerà? Con un focus a puntate, abbiamo cercato di capire quanto quest’idea sia auspicabile e soprattutto se sia realmente possibile metterla a terra.

Nel primo episodio abbiamo visto il concetto di sequestro biologico del carbonio e dato una dimensione alla scala, enorme, del problema. La seconda puntata mostrava invece le difficoltà puramente logistiche di piantare mille miliardi di alberi in poche decine di anni: il tempo necessario potrebbe essere, ammettendo possibili ritmi di piantumazione mai sostenuti nella storia, di oltre 200 anni. Tempo che evidentemente non abbiamo. Per concludere il focus, oggi faremo un confronto da “gioco della torre”: è meglio piantare nuovi alberi per assorbire CO2, oppure è più efficace non liberarne, producendo energia elettrica da fonti rinnovabili?

Questa dicotomia “forzata” tra strategie di mitigazione climatica, va sottolineato tre volte, è puramente dimostrativa e non deve esistere nella realtà: in un contesto di Transizione ecologica infatti sarà senza dubbio fondamentale l’elettricità da fonti rinnovabili, così come potrà dare un contributo (se non decisivo), ogni singolo albero riforestato. Ma allora perché proporla? Un’unica semplice, ma non scontata ragione: capire quale sia la strada migliore e quali siano le priorità da seguire per battere il cambiamento climatico che abbiamo creato.

Spoiler: gli alberi con il miglior impatto ecologico sul nostro pianeta da mettere oggi a terra sono fatti in fibra di carbonio e hanno pale rotanti che trasformano il vento in energia cinetica e poi elettrica. Ora vediamo il perché.

Dati 25 km2 di terra, meglio riforestarli o riempirli di impianti rinnovabili?

Ribadiamo: riforestare è comunque un’azione positiva per la Terra. Dovremo farlo, ma non basterà. Va ricordato anche, che non ha alcun senso lanciarsi in grandi campagne di riforestazione di alcune centinaia di milioni di alberi all’anno, se nello stesso periodo sono circa 15.3 miliardi che vengono abbattuti per far posto ad attività economiche e umane. Ma veniamo all’argomento del focus di oggi: tra l’investire nelle rinnovabili e farlo in iniziative di riforestazione, quale sarebbe il metodo più efficiente per arrivare minimizzare le emissioni di anidride carbonica? Prendiamo per semplicità quella che Mark Jacobson climatologo, ingegnere energetico e direttore del prestigioso Atmosphere and Energy Program dell’Università di Stanford definisce come “la tecnologia di produzione di energia con la più bassa impronta carbonica tra tutte quelle disponibili”: la turbina eolica. Per fare alcuni brevi calcoli consideriamo un’area di terreno quadrata di 25 km2, senza alcun albero o altro ostacolo e immaginiamo di poter decidere di impiegarla per riforestare o per produrre energia elettrica green con turbine eoliche. Per decidere quale sia la soluzione migliore, dovremo ricorrere a pochi ma fondamentali concetti di termodinamica ed energetica.

Terreno “coltivato” a turbine eoliche: 340 mila tonnellate di CO2 in meno

La capacità nominale media di una singola turbina installata in Usa negli ultimi due anni è stata 2.55 MW, mentre quella europea è stata 3.1 MW. Prendiamo allora come base per i ragionamenti successivi un modello equivalente sul mercato: Vestas V100-2.6,  con diametro delle pale di 100 metri. Attenzione: come detto abbiamo a disposizione un’area quadrata di 5 km di lato.

Com’è noto, in un parco eolico (un insieme di turbine che generano elettricità), è importante evitare l’effetto scia, ovvero quello per cui la turbina a monte rallenta il vento e crea turbolenze che diminuirebbero la produzione dell’aerogeneratore a valle. Per farlo, la distanza minima tra le turbine dev’essere di 5/7 volte il loro diametro in direzione del vento prevalente, 3/5 volte in direzione perpendicolare. Approssimando per difetto, nell’ampio spazio considerato di 25 km2, avremmo 50 turbine eoliche. La capacità nominale totale installata sarebbe = 50*2.6 MW = 130 MW. Assumendo un fattore di capacità (una sorta di efficienza della turbina) del 40%, l’output energetico generato in un anno dal parco eolico sarebbe di circa 450 GWh di elettricità.

Ciascuno dei 450 GWh prodotti sarebbe green e potrebbe sostituire un GWh “grigio”, ovvero generato a partire dalla combustione di fonti fossili che ha liberato CO2 in atmosfera. È importante a questo punto specificare quanta sia questa CO2: assumiamo 986 tonnellate per ogni GWh di elettricità da carbone, 429 tonnellate per ogni GWh di elettricità da gas naturale. La stragrande maggioranza delle reti elettriche globali ha tuttora molta più elettricità prodotta da centrali termoelettriche a carbone, ma approssimiamo ancora per difetto e consideriamo un’intensità carbonica media dell’elettricità da fonte fossile di circa 750 tonnellate di CO2 per ogni GWh prodotto.

Ne deriva quindi che il parco eolico da 50 turbine, nel corso dell’anno, eviterà l’emissione di 450 GWh (la produzione annuale di elettricità) moltiplicato per 750 (le tonnellate di CO2 per ogni GWh che sarebbe prodotto dalle fossili). Si avrà quindi 450 GWh *750 CO2/GWh = 337.500. Saranno allora 340 mila le tonnellate di anidride carbonica “evitate” dal nostro campo eolico.

Terreno riforestato: 43 mila tonnellate di CO2 in meno 

Ora consideriamo invece l’ipotesi di dedicare i nostri 25 km2 di terra liberi alla pura e semplice riforestazione. Tralasciamo il fatto che ci vorrebbe come minimo mezzo secolo prima che i nuovi alberi piantati raggiungano un’altezza e una maturità tale da assorbire CO2 in maniera significativa. Poniamo che la nostra foresta nasca e si sviluppi in una sera. E soprattutto ipotizziamo che non venga distrutta da incendi, alluvioni o altre calamità naturali. Non esiste una cifra unica e accettata che descriva quanta CO2 sia in grado di fotosintetizzare e catturare una pianta. Ci sono al contrario molte stime; mediando tra le varie disponibili in letteratura scientifica e aggiustando in base alle dimensioni e al tipo di albero, poniamo che ognuno assorba in media 22 kg di CO2 ogni anno. Nel giro di 40 anni avremmo circa 0.9 tonnellate di CO2 assorbita per ogni albero.

Quanti alberi possiamo piantare? Foreste moderatamente fitte e in salute arrivano a 75 mila alberi per km2. Avremo allora in tutto 75.000 (alberi/km2) *25 (km2) = 1.9 milioni di alberi per il nostro vasto appezzamento di terreno. A questo punto, per conoscere la quantità di CO2 evitata in atmosfera basterà moltiplicare il numero di alberi, 1.9 milioni, per le tonnellate di CO2 assorbite da ogni singola pianta: 0.9. Si avrà 1.9 (alberi) *0.9 (tonnellate di CO2 assorbite/albero) = 1.71 milioni di tonnellate di CO2. Ora non ci resta che dividere questa cifra per il numero di anni di “funzionamento” dei nostri nuovi alberi, ovvero 40 anni = 1.710.000/40 = 42.750 tonnellate di CO2.

Ricapitolando: la nostra neo-foresta assorbirà circa 43 mila tonnellate di anidride carbonica ogni anno.

Le rinnovabili dovranno avere la quota del leone

Il faccia a faccia con un parco di turbine eoliche appare quindi impietoso: l’elettricità rinnovabile ricavata dal vento eviterebbe di liberare 340 mila tonnellate di CO2 in atmosfera, la foresta ripiantumata 43 mila. Insomma, se disponessimo di un grosso “campo” e il nostro obiettivo fosse unicamente quello di mitigare il più possibile il Climate change, la soluzione migliore sarebbe quella di “piantare” turbine eoliche: un metodo addirittura 8 volte più efficace

In conclusione, il confronto come detto è puramente dimostrativo. Costruire un parco eolico sarebbe meno economico che piantare alberi. Senza contare che le turbine eoliche hanno senso solo se inserite in un contesto consono, in cui il vento spiri ad una certa velocità, con una specifica frequenza, previa attenta valutazione di impatto ambientale e sull’ecosistema. Ciò detto, il potenziale di decarbonizzazione (dove con il termine si deve intendere generalmente eliminare il carbonio prodotto da attività antropiche), è nettamente migliore per l’elettricità da fonti rinnovabili, in questo caso ipotizzata da eolico.

La diretta conseguenza è che la strada principale – ad oggi anche l’unica a ben vedere – da percorrere per arrivare a fine secolo con un aumento di temperatura globale media non superiore ai 2°C, è quella della decarbonizzazione tramite il phase-out progressivo dei combustibili fossili, l’aumento dell’efficienza e una certa riduzione dei consumi, in parallelo con lo sviluppo massivo di fonti rinnovabili come eolico e fotovoltaico.

Tutto ciò è stato dimostrato ampiamente da Ipcc, dalla letteratura scientifica che ogni giorno ci avverte e ancora recentemente ribadito da Iea nel primo studio globale sulla transizione a “Net-zero” entro il 2050. In breve: iniziative di riforestazione – e soprattutto di contrasto alla deforestazione – saranno auspicabili ed eserciteranno senza dubbio un ruolo, ma non potranno avere la parte del leone in questa sfida epocale che ci attende.

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About Author / Stefania Del Bianco

Giornalista scientifica. Da sempre appassionata di hi-tech e innovazione energetica, ha iniziato a collaborare alla testata fin dalle prime fasi progettuali, profilando le aziende di settore. Nel 2008 è entrata a far parte del team di redattori e nel 2011 è diventata coordinatrice di redazione. Negli anni ha curato anche la comunicazione e l'ufficio stampa di Rinnovabili.it. Oggi è Caporedattrice del quotidiano e, tra le altre cose, si occupa quotidianamente delle novità sulle rinnovabili, delle politiche energetiche e delle tematiche legate a tecnologie e mercato.


Rinnovabili • filiere delle rinnovabili

Decreto FERX, gli stakeholder chiedono più chiarezza e trasparenza

Il Ministero dell'Ambiente pubblica gli esiti della consultazione pubblica sul Decreto Ministeriale FER X, chiusa lo scorso settembre. Dai 46 soggetti partecipanti emerge l'esigenza di conoscere per tempo tutte le informazioni utili alla programmazione degli investimenti nelle rinnovabili. Chiesti chiarimenti sul processo autorizzativo e sulle tempistiche

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Foto di Rabih Shasha su Unsplash

Decreto FERX, nuovi spunti di riflessione

Servono maggiori informazioni sui coefficienti sul prezzo d’aggiudicazione, sui criteri di priorità, sulla documentazione per l’accesso al meccanismo e sulle tipologie di interventi ammessi. In particolare quando si tratta di progetti di “rifacimento” e “potenziamento”. Queste alcune delle principali richieste emerse dalla consultazione pubblica sul Decreto FERX. La scorsa estate il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica aveva pubblicato lo schema del provvedimento per una raccolta di pareri da parte degli stakeholder, con l’obiettivo di condividerne le logiche. Oggi il MASE rende noti gli esiti di tale consultazione puntando i riflettori sugli spunti e le richieste emerse da parte dei 46 soggetti partecipanti. 

Gli esiti della consultazione pubblica

Ricordiamo che il Decreto FERX nasce con lo scopo di definire un meccanismo di supporto espressamente dedicato ad impianti a fonti rinnovabili con costi di generazione vicini alla competitività. Come? Tramite contratti CfD a valere sull’energia elettrica prodotta dagli impianti. Con un accesso diretto per quelli di taglia inferiore al MW, e tramite aste al ribasso per quelli di taglia uguale o superiore al MW. Ed è proprio su queste due modalità che arrivano le prime considerazioni.

Per la maggior parte dei soggetti che hanno risposto alla consultazione, il contingente di 5 GW per gli impianti FER ad accesso diretto non sarebbe sufficiente, soprattutto vista la grande attenzione che stanno ricevendo al livello di investimento i sistemi di piccola taglia.

Per quanto riguarda l’accesso tramite asta, invece, il parere generale condivide i contingenti individuati, che secondo l’ultima bozza pubblicata oggi sarebbero: per il fotovoltaico 45 GW; per l’eolico di 16,5 GW; per l’idroelettrico di 630 MW; per i gas residuati 20 MW. “Tuttavia – si legge nel documento del MASE – congiuntamente alla risposta positiva sono state proposte diverse modifiche (aumento di uno specifico contingente, creazione di nuovo contingente, meccanismi di riallocazione della potenza non assegnata, ridefinizione dei contingenti al fine di favorire lo sviluppo dei PPA, etc.)”. Tra gli spunti emersi c’è la proposta di contingenti separati tra il fotovoltaico a terra e sul tetto.

Proposti nuovi requisiti di accesso e tempistiche

In tema requisiti d’accesso, alcuni soggetti chiedono l’incremento della soglia di potenza per l’accesso diretto, l’aggiunta dei criteri ESG, la reintroduzione del requisito specifico che attesti la capacità finanziaria ed economica di chi partecipa al meccanismo del Decreto FERX.

Con riferimento ai tempi massimi individuati per la realizzazione degli interventi, la consultazione ha evidenziato un forte distaccamento con le aspettative degli operatori. Per quanto detto diversi soggetti propongono per una o più fonti l’innalzamento dei tempi previsti, chiedendo di tenere in considerazione parametri quali, la potenza e/o la tipologia d’intervento, l’ottenimento dei titoli autorizzativi, i tempi di realizzazione della connessione e quelli dovuti agli approvvigionamenti, che sottolineano, potrebbero oltretutto determinare un aumento dei costi, visto anche i meccanismi incentivanti”, si legge ancora nel documento.

Per i tempi di comunicazione della data d’entrata in esercizio dell’impianto, emerge nel complesso l’esigenza di un prolungamento, aggiungendo da più 60 giorni a 12 mesi. Viene anche evidenziata una certa contrarietà all’obbligo per gli operatori di impianti rinnovabili non programmabili che stipula un contratto CfD ad abilitarsi alla fornitura dei servizi di dispacciamento.

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Rinnovabili • batteria ibrida al sodio

Dalla Corea la batteria ibrida al sodio che si ricarica in pochi secondi

Un gruppo di scienziati del KAIST ha sviluppato una batteria a ioni di sodio ad alta energia, ad alta potenza e di lunga durata

batteria ibrida al sodio
Foto di danilo.alvesd su Unsplash

Quando le batteria a ioni sodio incontrato i supercondensatori a ioni sodio

Arriva dalla Corea del Sud la prima batteria ibrida al sodio in grado di battere la tecnologia a ioni di litio a mani basse. Con ottime prestazioni lato di capacità di accumulo, potenza, velocità di carica e durata, come dimostra l’articolo pubblicato sulla rivista scientifica Energy Storage Materials (testo in inglese).

Nel 2020 le batterie a ioni sodio (Na+) hanno raggiunto prestazioni comparabili a quelle degli ioni di litio in termini di capacità e durata del ciclo in condizioni di laboratorio. Da allora il segmento ha continuato a macinare grandi progressi, spinto dall’esigenza globale di trovare una tecnologia di accumulo più economica delle ricaricabili al litio e meno dipendente dalle attuali catene di approvvigionamento dei materiali critici. L’ultimo grande risultato nel campo è quello segnato da un gruppo di scienziati del KAIST, il Korea Advanced Institute of Science and Technology.

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Il team guidato dal professor Jeung Ku Kang del Dipartimento di Scienza e Ingegneria dei Materiali ha messo a punto una batteria ibrida agli ioni di sodio dalle prestazioni eccellenti e in grado di ricaricarsi in pochi secondi. Il segreto? Un’architettura che integra materiali anodici propri delle batterie con catodi adatti ai supercondensatori.

Batteria ibrida al sodio, prestazioni record

In realtà non si tratta di un approccio nuovo. Gli stoccaggi ibridi con Na+ sono emersi negli ultimi anni come una promettente applicazione nel campo dell’energy storage in grado di superare i punti deboli degli accumulatori a ioni di sodio più conosciuti.

Tradizionalmente questo metallo è usato e studiato in due tipi di dispositivi di stoccaggio: batterie e condensatori. Le prime, come spiegato poc’anzi, forniscono oggi una densità di energia relativamente elevata ma sono caratterizzate da una lenta cinetica di ossidoriduzione, che si traduce in una bassa densità di potenza e una scarsa ricaricabilità. I secondi invece hanno un’elevata densità di potenza dovuta all’accumulo di carica tramite rapido adsorbimento di ioni superficiali, ma una densità di energia estremamente bassa.

Tuttavia unire le due tecnologie impiegando catodi di tipo condensatore e degli anodi di tipo batteria, non ha dato subito i risultati sperati. La causa è da ricercare soprattutto nello squilibrio cinetico tra i due tipi di elettrodi.

Nuovi materiali per catodo e anodo

Per arginare il problema il team sudcoreano ha utilizzato sviluppato un nuovo materiale anodico con cinetica migliorata attraverso l’inclusione di materiali attivi fini nel carbonio poroso derivato da strutture metallo-organiche. Inoltre, ha sintetizzato un materiale catodico ad alta capacità e la combinazione dei due ha consentito lo sviluppo di un sistema di accumulo di ioni sodio che ottimizza l’equilibrio e riduce al minimo le disparità nei tassi di accumulo di energia tra gli elettrodi.

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La cella completamente assemblata supera per densità di energia le batterie commerciali agli ioni di litio e presenta le caratteristiche della densità di potenza dei supercondensatori. Nel dettaglio la batteria ibrida al sodio si ricarica rapidamente e raggiunge una densità di energia di 247 Wh/kg e una densità di potenza di 34.748 W/kg. Inoltre gli scienziati hanno registrato una stabilità del ciclo con efficienza Coulombica pari a circa il 100% su 5000 cicli di carica-scarica.

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Rinnovabili • fotovoltaico materiale quantistico

Fotovoltaico, ecco il materiale quantistico con un’efficienza del 190%

Un gruppo di scienziati della Lehigh University ha sviluppato un materiale dotato di una efficienza quantistica esterna di 90 punti percentuali sopra quella delle celle solari tradizionali

fotovoltaico materiale quantistico
via Depositphotos

Nuovo materiale quantistico con un assorbimento solare medio dell’80%

Atomi di rame inseriti tra strati bidimensionali di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. Questa la ricetta messa a punto dai fisici Srihari Kastuar e Chinedu Ekuma nei laboratori della Lehigh University, negli Stati Uniti, per dare una svecchiata alla prestazioni delle celle solari. Il duo di ricercatori ha così creato un nuovo materiale quantistico dalle interessanti proprietà fotovoltaiche. Impiegato come strato attivo in una cella prototipo, infatti, il nuovo materiale ha mostrato un assorbimento solare medio dell’80%, un alto tasso di generazione di portatori fotoeccitati e un’efficienza quantistica esterna (EQE) record del 190%. Secondo gli scienziati il risultato raggiunto supera di gran lunga il limite teorico di efficienza di Shockley-Queisser per i materiali a base di silicio e spinge il campo dei materiali quantistici per il fotovoltaico a nuovi livelli. 

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L’efficienza quantistica esterna

Tocca fare una precisazione. L’efficienza quantistica esterna non va confusa con l’efficienza di conversione, il dato più celebre quando si parla di prestazioni solari. L’EQE rappresenta il rapporto tra il numero di elettroni che danno luogo a una corrente in un circuito esterno e il numero di fotoni incidenti ad una precisa lunghezza d’onda

Nelle celle solari tradizionali, l’EQE massimo è del 100%, tuttavia negli ultimi anni alcuni materiali e configurazioni avanzate hanno dimostrato la capacità di generare e raccogliere più di un elettrone da ogni fotone ad alta energia incidente, per un efficienza quantistica esterna superiore al 100%. Il risultato di Kastua e Ekuma, però, rappresenta un unicum nel settore.

Celle solari a banda intermedia

Per il loro lavoro due fisici sono partiti da un campo particolare della ricerca fotovoltaica. Parliamo delle celle solari a banda intermedia (IBSC – Intermediate Band Solar Cells), una tecnologia emergente che ha il potenziale per rivoluzionare la produzione di energia pulita. In questi sistemi la radiazione solare può eccitare i portatori dalla banda di valenza a quella di conduzione, oltre che direttamente, anche in maniera graduale. Come?  “Passando” per l’appunto attraverso stati di una banda intermedia, livelli energetici specifici posizionati all’interno della struttura elettronica di un materiale creato ad hoc. “Ciò consente a un singolo fotone di provocare generazioni multiple di eccitoni attraverso un processo di assorbimento in due fasi“, scrivono i due ricercatori sulla rivista Science Advances.

Nel nuovo materiale quantistico creato dagli scienziati della Lehigh University questi stati hanno livelli di energia all’interno dei gap di sottobanda ideali. Una volta testato all’interno di una cella fotovoltaica prototipale il materiale ha mostrato di poter migliorare l’assorbimento e la generazione di portatori nella gamma dello spettro dal vicino infrarosso alla luce visibile. 

La rivoluzione dei materiali quantistici

Il duo ha sviluppato il nuovo materiale sfruttando i “gap di van der Waals”, spazi atomicamente piccoli tra materiali bidimensionali stratificati. Questi spazi possono confinare molecole o ioni e gli scienziati dei materiali li usano comunemente per inserire, o “intercalare”, altri elementi per ottimizzare le proprietà dei materiali. Per la precisione hanno inserito atomi di rame tra strati di seleniuro di germanio e solfuro di stagno. “Rappresenta un candidato promettente per lo sviluppo di celle solari ad alta efficienza di prossima generazione – ha sottolineato Ekuma – che svolgeranno un ruolo cruciale nell’affrontare il fabbisogno energetico globale“.

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