Combustibili fossili, alle università conviene disinvestire?

L’Università di Harvard ha deciso di disinvestire dalle compagnie di combustibili fossili e altri prestigiosi atenei in USA e Canada stanno considerando di seguirne l’esempio. Ma è così facile disinvestire? E alle università conviene davvero?

Combustibili fossili
CC BY-SA 2.0, Collegamento

(Rinnovabili.it) – La Harvard Management Company, che gestisce la dotazione finanziaria dell’Università di Harvard – che ammonta a 42 miliardi di dollari, la più grande di questo tipo in tutto il mondo – ha deciso di disinvestire dalle compagnie di combustibili fossili. Sulla scia di Harvard, altri prestigiosi atenei in USA e Canada stanno considerando di seguirne l’esempio.

Il rettore di Harvard, Lawrence S. Bacow, ha deciso di accelerare un processo che era iniziato una decina di anni fa perché il cambiamento climatico – che determina incendi, inondazioni, siccità – colpisce tutto il mondo e sta mettendo in pericolo le coltivazioni e la disponibilità di acqua. Già nel 2016 la Harvard Climate Justice Coalition premeva per disinvestire da gas e petrolio, come chiedevano gli studenti; la vera svolta è avvenuta negli ultimi anni, quando Harvard ha ridotto ad appena il 2% la sua partecipazione nelle compagnie petrolifere e del gas.

Posizioni divergenti

Nathan Greenfield in “University World News” (Pros and cons of university divestment from fossil fuels) riporta un interessante dibattito sul tema, dove si confrontano pareri di colore opposto.

Richard Masson, dirigente nella School of Public Policy dell’Università di Calgary e consulente nel settore petrolifero e del gas, sostiene che disinvestire dalle compagnie di combustibili fossili significa tagliarsi fuori da un’industria da 2,5 trilioni di dollari. Il problema tuttavia non è solo economico: per Masson è sbagliata la prospettiva: «I gas serra nell’atmosfera provengono dal consumo di idrocarburi, mentre il disinvestimento si concentra sulla produzione».

L’80% dell’energia mondiale viene da combustibili fossili, e abbandonarli richiederà tempi lunghi. Quindi, a suo dire, è preferibile sostenere le società quotate in borsa piuttosto che doversi rivolgere a compagnie petrolifere di altri Paesi che hanno normative diverse da quelle occidentali. In sostanza, chi disinveste nei combustibili fossili vende le sue partecipazioni a qualcun altro, ma non rimuove un solo barile di petrolio dal mercato.

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È solo greenwashing?

Secondo Hendrik Bessembinder, docente nella WP Carey School of Business e nella University of Arizona, il disinvestimento causerebbe una perdita di valore della dotazione universitaria che andrebbe a incidere sugli investimenti per didattica e ricerca o sul costo dei corsi, e quindi sugli studenti. Inoltre, Bessembinder sostiene che «il disinvestimento non influisce direttamente sulle emissioni di gas serra, ma trasferisce la quota di proprietà esistente nelle società a nuovi proprietari: un atto simbolico che ti fa sentire a posto con la coscienza.

Christopher J. Ryan Jr. e Christopher R. Marsicano nell’articolo Examining the Impact of Fossil Fuel Divestment on University Endowments, pubblicato nel “New York University Journal of Law & Business”, sostengono che le valutazioni delle dotazioni universitarie non sono influenzate dal disinvestimento dai combustibili fossili. Addirittura, dopo aver esaminato le dotazioni di quattro università che avevano disinvestito, hanno rilevato che tre su quattro avevano ottenuto risultati migliori. Tra l’altro bisogna ricordare che negli ultimi anni il mercato petrolifero ha conosciuto un certo declino.

Non c’è coerenza tra comportamento e insegnamento

Allora conviene mantenere il proprio posto a tavola? Quanto conta la leva finanziaria? Alcuni ritengono che in questo modo si possano influenzare le politiche delle società in cui si investe, e mostrarsi attivamente impegnati per il cambiamento.

Il problema, a ben vedere, è anche un altro. Le università sono i luoghi dove si insegna la scienza del clima e dell’ambiente e dove sono i maggiori centri di ricerca. Pertanto dovrebbero fregiarsi della patente carbon zero ed essere coerenti con quello che insegnano: trarre profitto dai combustibili fossili non sembra esattamente un esempio di coerenza.

Non va sottovalutato l’aspetto finanziario: se esiste un rischio fisico reale legato ai cambiamenti climatici, quello transitorio è legato all’abbandono dell’economia dipendente dai combustibili fossili, che finiranno per essere svalutati.

Cedere o ridurre le partecipazioni di un college o di un’università in società di combustibili fossili non è un processo facile o veloce. In alcuni casi si è realizzato in tempi brevi, come nel caso del Québec (Canada); va rilevato, però, che qui vietare i combustibili fossili non è una scelta così dirompente, dato che la maggior parte dell’energia della regione viene dalle enormi dighe nell’estremo nord. Sarebbe diverso in altre province, dove i combustibili fossili sono una parte importante dell’economia.

Disinvestire non è così semplice

Denis Cossette, direttore finanziario della Concordia University canadese e presidente della Concordia University Foundation, spiega perché disinvestire non è così semplice. Una cosa è disinvestire da grandi società come Shell o ExxonMobil, altro è disinvestire dal settore quando ci sono miriadi di partecipazioni in fondi comuni di investimento: «Quindi decidiamo di non investire in quel fondo nonostante sia fortemente gestito, abbia una buona governance, faccia investimenti positivi e abbia rendimenti positivi?».

La soluzione di Concordia University Foundation è in un “approccio zero carbon neutral” e vuole assicurarsi che i fondi siano conformi ai criteri ESG – Environmental, Social, Governance, che si basano sui 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite. «All’interno di questo quadro globale vogliamo investire in attività che produrranno sostenibilità. Allo stesso modo si può decidere di non investire in settori che non lo rispettano».

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