Morandi: qualità e ricerca le sfide di Cobat

Dal fotovoltaico tra le nevi dell’Everest al matrimonio con il Cnr per cercare una tecnica di riciclo delle batterie al litio: Tutte le sfide di Cobat

Morandi qualità e ricerca le sfide di Cobat(Rinnovabili.it) – In un mercato del lavoro in crisi, la risposta non può essere che fornire una manodopera qualificata, e il settore del riciclo batterie al litio può dare il suo contributo. È quello che sostiene il presidente del Cobat, Giancarlo Morandi, presentando la nuova partnership fra il consorzio e il Cnr. L’impegno per sviluppare tecniche di riciclo delle batterie al litio è una sfida internazionale. Chi la vincerà potrà dare una spinta all’uscita dall’era del piombo.

 

Iniziamo parlando di innovazione tecnologica nel settore del riciclo delle batterie. Come si articolerà la partnership con il Cnr e quali obiettivi vi prefissate?

L’idea è creare un’alleanza per affrontare le sfide del futuro. Le batterie al litio sono ovunque: alimentano gli smartphone che ognuno di noi ha in tasca e sono utilizzate nelle auto elettriche e ibride, nuova frontiera della mobilità che potrebbe nel medio termine diventare mercato di massa. Gli accumulatori al litio, poco noti fino a pochi anni fa, si sono rapidamente diffusi in tutto il mondo. Dal 2001 al 2013 il loro utilizzo è quasi decuplicato. Non esiste però ancora una tecnologia affidabile per il riciclo di queste pile, il cui elemento base è altamente infiammabile e, in particolari condizioni, a contatto con l’acqua funziona da catalizzatore, creando una miscela esplosiva di idrogeno e ossigeno. Cnr e Cobat collaboreranno per individuare soluzioni innovative e processi di lavorazione sicuri, che consentano il recupero completo dei materiali che compongono questo tipo di batterie. Il Cnr metterà a disposizione il proprio patrimonio di conoscenze e competenze interdisciplinari per sviluppare e realizzare tecnologie avanzate ed ecosostenibili. Cobat offrirà il proprio know-how da leader nella raccolta e nel riciclo di pile e accumulatori.

 

L’attività principale di Cobat è ancora finalizzata al recupero e riciclo delle batterie, uno dei prodotti più pericolosi per il territorio. Qual è la ricaduta della vostra attività sull’ambiente?

La dispersione degli accumulatori al piombo nell’ambiente è estremamente dannosa. Basti pensare a quel che può succedere nell’ecosistema marino: l’abbandono di batterie esauste in mare porta con sé il rischio che le sostanze pericolose in esse contenute – in particolare piombo ed acido solforico – si disperdano in acqua ed entrino nella catena alimentare. Per questo Cobat ha svolto le sue azioni di sensibilizzazione in aree particolarmente fragili sotto il profilo ambientale nei porti simbolo della penisola italiana. L’operazione “Niente Leghe sotto i Mari”, in due anni ha portato al recupero di quasi tre tonnellate di batterie al piombo esauste e altrettante di altri rifiuti.

 

Parliamo di lavoro, uno dei problemi più drammatici del nostro Paese in questi mesi. L’attività complessiva di Cobat che tipo di ripercussione occupazionale ha sviluppato? E come è articolata sul territorio?

Il consorzio ha una propria rete di raccolta, costituita da 90 punti Cobat, che serve oltre 80.000 produttori di rifiuto tra artigiani, officine, distributori e isole ecologiche, effettuando più di 150.000 interventi ogni anno per l’avvio al riciclo dei rifiuti presso i 7 Impianti di recupero del piombo e gli 11 per il trattamento dei RAEE. Ma la vera sfida a livello occupazionale è creare posti di lavoro caratterizzati da alta specializzazione e innovazione. Posti di lavoro seri e affidabili perché guardano al futuro, sono al passo con l’incessante sviluppo tecnologico e raccolgono la sfida del mercato sull’unico fronte possibile: quello della qualità.

 

Lo scorso anno avete portato a termine un’impresa epica: la Top Recycling mission nel laboratorio Piramide sull’Everest. Avete già raccolto da tale impresa dei risultati in termini di comunicazione e di immagine o le aspettative erano maggiori della realtà?

Le immagini spettacolari della missione sono finite su tutti i più importanti media nazionali, ma non è questo il punto. Il vero risultato è quello operativo. Un viaggio di 18 giorni fra sentieri di terra battuta, fango e sassi per trasportare circa 15 tonnellate di batterie e pannelli solari a oltre 5 mila metri di quota. Ma oltre all’alto valore scientifico dell’operazione, c’è anche quello sociale. Una parte dei moduli fotovoltaici e degli accumulatori ancora funzionanti, che sono stati sostituiti ­da modelli tecnologicamente più avanzati, sono stati donati a due cooperative di Dinboche, a 4200 metri di quota, nella Khumbu Valley. Una “community solar station” che fornirà di elettricità gli abitanti del paese per almeno 10 anni.

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