Rinnovabili • Impatto della crisi climatica sull’economia italiana: nel 2100, Pil anche -9,5% Rinnovabili • Impatto della crisi climatica sull’economia italiana: nel 2100, Pil anche -9,5%

Tutti i numeri dell’impatto della crisi climatica sull’economia italiana

Sull’Italia, l’aumento della temperatura sarà circa il 20% maggiore rispetto alla media globale. A rischio a fine secolo tra il 2,8 e il 9,5% del Pil pro capite. Impatto maggiore su agricoltura (a certe condizioni) e turismo (invernale)

Impatto della crisi climatica sull’economia italiana: nel 2100, Pil anche -9,5%
Photo by Mika Baumeister on Unsplash

17 studi scientifici commissionati dalla Banca d’Italia fanno il punto sull’impatto del climate change sull’economia nazionale

(Rinnovabili.it) – In uno scenario medio di riscaldamento globale (cioè +1,5°C), il clima che cambia rosicchierà ogni anno la crescita economica fino a cancellare, a fine secolo, tra il 2,8 e il 9,5% del Pil pro capite. Se si ipotizza un tasso annuo del +2%, il climate change si divora lo 0,03-0,15% ogni anno. Possono sembrare pochi decimali, ma nel medio e lungo periodo si faranno sentire. L’impatto della crisi climatica sull’economia italiana colpirà due settori in particolare: agricoltura e turismo. Ovviamente, anche l’industria risentirà dell’aumento delle temperature globali. È quanto emerge da 17 lavori di ricerca prodotti nella cornice del progetto “Gli effetti del cambiamento climatico sull’economia italiana” commissionato dalla Banca d’Italia.

Troppo caldo fa male ai raccolti

Il capitolo sull’impatto della crisi climatica sull’agricoltura italiana analizza mais, grano duro e vite. Temperature superiori a 28°-29° danneggiano le rese di mais e grano duro, mentre l’effetto negativo è meno marcato per la vite e si manifesta a temperature più elevate (oltre i 32°).

Uno degli aspetti chiave da tenere a mente è come cambia la curva della resa di questi prodotti prima e dopo gli spartiacque appena segnalati. Fino a 29°, un aumento della colonnina di mercurio fa bene a mais e grano duro e l’aumento della resa è lieve ma costante. Oltre questo limite, però, la resa crolla molto velocemente. Questo significa che ogni grado di temperatura oltre i 29°C vale molto di più dell’aumento di 1°C prima di questa soglia. Va meglio invece per la vite: ma la curva oltre i 32°C scende lenta.

In concreto, che ne sarà dell’agricoltura italiana? Per queste tre colture, l’orizzonte fino al 2030 è quasi roseo. La resa del mais potrebbe scendere tra lo 0,8 e il 6%, in uno scenario medio di global warming, mentre ci sarebbero ricadute neutre o positive per grano duro e vite. Più cautela occorre per le proiezioni oltre questo decennio. Con un aumento ulteriore delle temperature – cumulato nei decenni, o derivato da scenari emissivi peggiori e quindi potenzialmente già entro il 2030 – “sarebbe più frequente il superamento della soglia di tolleranza oltre la quale un caldo maggiore diventa dannoso per la pianta e si verificherebbe dunque una diminuzione delle rese”, nota lo studio. Inoltre “il cambiamento climatico potrebbe generare non solo un incremento delle temperature massime medie, ma anche un aumento della frequenza e della durata delle cosiddette “ondate di caldo” che “potrebbero avere un impatto sui raccolti molto negativo”.

Addio turismo invernale in montagna

Due miliardi di euro, il 13% delle prenotazioni alberghiere. È quanto vale il segmento del turismo invernale di montagna. Quello che subirà molto più di altri l’impatto della crisi climatica sull’economia italiana. “L’arco alpino sarà una delle zone in cui sarà più intenso l’aumento delle temperature, fino a tre volte maggiore rispetto alla media dell’emisfero boreale” e dove caleranno le precipitazioni nevose, sottolinea uno studio dedicato incluso nel dossier della Banca d’Italia.  

Al 2100 secondo le proiezioni sul Nord Italia cadrà dal 30 al 45% meno neve. “Una riduzione del 40 per cento nella quantità di neve in una stagione implicherebbe in media una diminuzione del 7 per cento di passaggi negli impianti, che potrebbe essere ben più severa nelle località che si trovano più a bassa quota”, scrivono gli autori. Che sottolineano: l’innevamento artificiale non sembra capace di sostenere la domanda turistica legata agli sport invernali.