Dimostrato che l’incorporazione del rubidio nelle celle solari in perovskite mediante deformazione reticolare riduce significativamente la perdita di energia e aumenta l'efficienza

Come aumentare ulteriormente l’efficienza delle celle fotovoltaiche in perovskite e colmare l’ultima distanza che le separa dal silicio cristallino? Un approccio possibile è quello che vede l’aggiunta di un pizzico di rubidio, elemento metallico ad elevata conduttività elettrica, alla “ricetta originale”.
È stato scoperto, infatti, che questo elemento impiegato come additivo può ridurre significativamente la ricombinazione non radiativa in alcune perovskiti. Portando di conseguenza a prestazioni più elevate. L’altro lato della medaglia? Il rubidio tende a reagire con altri componenti e formare fasi cristalline diverse dalla perovskite desiderata, che possono cancellare il vantaggio acquisito.
A trovare una soluzione al problema è oggi una nuova ricerca dell’Ecole Polytechnique Federale di Losanna (EPFL), in Svizzera. Qui un gruppo di scienziati, guidati da Lukas Pfeifer e Likai Zheng del gruppo di Michael Grätzel, hanno trovato un modo per obbligare il Rb a rimanere “fermo”.
Per capire il lavoro è necessario fare qualche passo indietro.
Le perovskiti WBG
Le celle solari in perovskite, in particolare quelle utilizzate in configurazioni tandem con altre tecnologie solari, si basano su materiali a banda larga (wide bandgap – WBG). Questi materiali non sono altro che semiconduttori che assorbono specificatamente i fotoni ad alta energia della luce, lasciando passare quelli a energia bassa.
Peccato che sotto illuminazione continua, queste perovskiti vanno incontro ad una grave segregazione di fase. In altre parole i diversi componenti della perovskite iniziano a separarsi portando alla formazione di regioni chimicamente differenti. Quest’ultime possono comportarsi da vere e proprie trappole per gli elettroni e le lacune liberate dai fotoni incidenti.
La conseguenza? I portatori di carica si ricombinano, perdendo energia sotto forma di calore (ricombinazione non radiativa). E determinando pertanto una riduzione della tensione a circuito aperto e anche dell’efficienza di conversione della cella.
Il rubidio quando incorporato nelle perovskiti WBG come regolatore additivo si è dimostrato capace di attenuare significativamente la ricombinazione non radiativa.
Il problema, come esplicitato all’inizio, è che questo elemento tende a formare fasi secondarie indesiderate che possono agire come difetti strutturali. Limitando la sua stessa capacità di stabilizzare la perovskite.
Come la deformazione migliora l’efficienza delle celle in perovskite
Il team dell’EPFL ha risolto il problema impiegando la deformazione reticolare, una distorsione controllata nella struttura atomica, in grado di bloccare il Rb bloccato nel reticolo della perovskite. E impedendo quindi la formazione di fasi secondarie.
Il risultato? La nuova composizione della perovskite, potenziata con Rb stabilizzato da deformazione, ha raggiunto una tensione a circuito aperto di 1,30 V. Si tratta di un impressionante 93,5% rispetto al suo limite teorico. “Ciò rappresenta una delle perdite di energia più basse mai registrate nelle perovskiti WBG”, spiega l’EPFL. Inoltre, il materiale modificato ha mostrato una resa quantica di fotoluminescenza superiore al 14%, indicando che la luce solare viene convertita in elettricità in modo più efficiente.
La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Science.