Singapore, la città-stato che pensa in grande, avanza l'idea di spostare i data center nell'Orbita Terrestre Bassa per un futuro digitale a impatto zero

Dopo i progetti per creare immense fattorie solari in orbita, arriva la proposta di portare i data center nello spazio. Un’idea pionieristica quella della Nanyang Technological University (NTU) di Singapore, secondo cui questi centri dati, sempre più indispensabili per lo sviluppo dell’AI, sarebbero facili da alimentare con l’energia solare e veloci da raffreddare. Il momento è cruciale, poiché si prevede che la domanda di elaborazione basata sull’AI aumenterà del 165% entro il 2030.
Nell’orbita terrestre bassa, infatti, quella dove si trovano già i satelliti, sarebbe possibile sfruttare l’alimentazione solare ed il raffreddamento naturale visto che la temperatura media si aggira intorno ai 2,7 Kelvin, pari a -270,45 C°.
Data center energivori ma indispensabili
Nella città-stato di Singapore, i data center divorano circa il 7% dell’elettricità nazionale, una cifra destinata a salire al 12% entro il 2030. Da qui l’idea degli scienziati della Nanyang Technological University che su Nature Electronics hanno pubblicato uno studio dal sapore fantascientifico.
L’obiettivo? Sviluppare i data center, e più ampiamente l’informatica al tempo dell’AI, con zero emissioni di carbonio. “Dobbiamo sognare con coraggio e pensare in modo non convenzionale se vogliamo costruire un futuro migliore per l’umanità. Lo spazio offre un ambiente realmente sostenibile per l’informatica,” le parole del Professor Wen Yonggang, che sul tema ha le idee molto chiare.
Server farm in orbita
L’Orbita Terrestre Bassa, LEO, offre una doppia soluzione, impossibile da attuare sulla Terra senza ricorrere ad enormi quantità di energia, quindi di emissioni inquinanti.
Innanzitutto, i satelliti orbitali potrebbero beneficiare di energia illimitata affidandosi esclusivamente ai pannelli solari, sfruttando la luce del sole senza l’interruzione dell’atmosfera o del ciclo notte-giorno.
In secondo luogo, la LEO permetterebbe un raffreddamento a costo zero: i server spaziali potrebbero disperdere il calore direttamente nel vuoto cosmico, che ha una temperatura media di oltre 270 gradi al di sotto dello zero. Si tratterebbe di un vero e proprio “refrigeratore radiativo naturale” che eliminerebbe la necessità di costosi e inquinanti sistemi di raffreddamento terrestri.
Due modelli per i data center nello spazio
Il team della NTU non si è limitato al concetto teorico, ma ha proposto due modelli operativi concreti, scalabili grazie ai progressi nell’informatica e nella tecnologia satellitare:
- Satelliti già in orbita equipaggiati con processori AI. Questi potrebbero elaborare i dati grezzi direttamente a bordo, inviando a Terra solo le informazioni essenziali. Il vantaggio consentirebbe la riduzione del volume di trasmissione dei dati di oltre 100 volte, con un netto risparmio energetico e di latenza.
- Vere e proprie “costellazioni” di satelliti dedicati, dotate di server, pannelli solari e raffreddatori radiativi. Questi cluster potrebbero eseguire collettivamente compiti complessi, come l’addestramento di modelli AI o simulazioni scientifiche, costituendo un cloud computing a scala globale, senza vincoli geografici.
La sfida della sostenibilità
Per costruire data center nello spazio sono necessari i vettori che dalla Terra portino fisicamente le infrastrutture in orbita. Non proprio una modalità a basso impatto, ma secondo i ricercatori attuando come paradigma la CUE, l’efficacia dell’utilizzo del carbonio nel ciclo di vita, si valuterebbe l’impronta di carbonio dell’intera esistenza del data center, includendo: le emissioni operative prossime allo zero nello spazio; le emissioni del lancio elevate perché generate dal razzo; le emissioni legate alla produzione dei server e dei satelliti e il loro eventuale smaltimento a fine vita.
Le simulazioni, supportate da un “gemello digitale” sviluppato in collaborazione con lo spin-off NTU Red Dot Analytics, hanno dimostrato che i data center orbitali alimentati a energia solare potrebbero compensare le emissioni del lancio iniziale entro pochi anni di attività a zero emissioni.













