Carbon Footprint, come calcolarlo nella pratica

E’ possibile determinare con esattezza l’impatto ambientale di un’attività o di un prodotto? Qualii sono le potenzialità e i limiti di questa metodica?

La Carbon Footprint, ossia la quantificazione delle emissioni di gas serra di un’attività o di un prodotto sta avendo un momento di interesse molto crescente, grazie alla sua facile comunicabilità e al legame diretto con quella che viene percepito come il problema ambientale più rilevante odierno, il cambiamento climatico.

Il Laboratorio LCA e Ecodesign di ENEA ha condotto recentemente uno studio e sperimentazione sulla Carbon Footprint per un’azienda erogatrice di servizi, Formula Servizi, al fine di individuarne, i potenziali benefici e la fattibilità in termini metodologici e tecnici. Il progetto, con il contributo finanziario della Regione Emilia-Romagna, aveva lo scopo di sperimentare diverse soluzioni di analisi e certificazione ambientale di un’azienda di pulizie e di un servizio di pulizia di un ospedale pubblico. Data la natura del servizio e dei soggetti coinvolti, pubblici e privati allo stesso tempo, tutte le tematiche sono state viste nella duplice ottica dell’azienda privata che eroga il servizio e degli operatori pubblici che ne beneficiano e ne curano appalti e programmazione, con l’esigenza quindi di definire criteri di Green Public Procurement (GPP). I risultati raggiunti hanno fornito una serie di indicazioni esaurienti rispetto alle diverse problematiche analizzate; in primo luogo si è confermato che anche nel caso di un servizio di pulizia, la certificazione ambientale, ai due diversi livelli di azienda o di specifico servizio, può rappresentare uno strumento assai utile non solo per migliorare le performances ambientali dell’azienda e del servizio, ma anche per ottimizzare più in generale i processi gestionali e il rapporto tra azienda, beneficiari del servizio e gli stessi dipendenti.

Il servizio di pulizia presenta certamente alcune caratteristiche peculiari sul piano funzionale ed organizzativo, con riscontri anche ambientali; in esso la fornitura di lavoro manuale rappresenta una componente essenziale, alla quale si aggiunge come ulteriore componente rilevante, in particolare se realizzato in una struttura molto particolare qual è l’ospedale, l’uso di detersivi. In questa situazione la certificazione ambientale a livello di azienda, EMAS o Carbon Footprint di organizzazione, e quella di prodotto, dello specifico servizio ospedaliero, hanno ampie zone di sovrapposizione e quindi il passaggio dall’una all’altra non presenta particolari difficoltà ed è conseguibile con limitate risorse. L’azienda può quindi, senza eccessivi sforzi, trarre notevoli vantaggi sul piano comunicativo e di mercato dalla realizzazione di processi di certificazione abbinati a livello di azienda e di servizio. Analoghe considerazioni valgono a livello di stazione appaltante; la definizione di criteri di GPP per specifici appalti di pulizia di un ospedale non presenta particolari difficoltà, dato il limitato numero di parametri in gioco, anche se, oltre alla qualità del servizio reso all’interno dell’ospedale, sarebbe opportuno tenere in considerazione le caratteristiche organizzative dell’impresa che incidono significativamente sull’impatto ambientale del servizio, in particolare l’organizzazione logistica del personale addetto.

In un’ottica ancora più generale, quale ad esempio quella della programmazione ospedaliera, di norma il tema della manutenzione, della pulizia e del loro impatto sull’ambiente non è stata considerato, mentre hanno avuto particolare rilievo le tematiche energetiche legate in primo luogo a riscaldamento, condizionamento, illuminazione. I due campi possono offrire notevoli sinergie sul piano sia degli interventi di ottimizzazione, sia dell’approccio metodologico; in particolare appaiono simili le problematiche di definizione di unità funzionali alle quali rapportare gli specifici consumi o impatti, in modo da poter individuare criteri di benchmarking e di ottimizzazione dei servizi.

Gli strumenti analizzati e sperimentati con il caso studio su Formula Servizi presentano differenze ed analogie per quanto riguarda gli aspetti più tecnici e di applicabilità.

In particolare, la norma ISO 14064 consente di progettare, sviluppare, gestire e rendicontare inventari di GHG a livello di organizzazione o di impresa. In sintesi lo strumento può essere denominato Carbon Footprint di una organizzazione. Presenta numerose analogie con i sistemi di gestione ambientale, con i quali si differenzia praticamente per essere focalizzato su un solo aspetto ambientale, le emissioni di gas clima alteranti.

L’analogia con i sistemi di gestione ambientale rende particolarmente semplice ed agevole il passaggio da uno strumento all’altro. Nel caso in esame, l’azienda oggetto della sperimentazione, Formula Servizi, è registrata EMAS e la quantificazione del Carbon Footprint dell’intera organizzazione si è ampiamente basato sui dati disponibili nella dichiarazione ambientale.

La maggior differenza è relativa alla quantificazione delle emissioni derivanti dagli acquisti di beni e servizi (cosiddetto Scope 3 secondo il GHG Protocol), che nel caso specifico ha richiesto una raccolta dati dettagliata presso il fornitore di detergenti ed altri prodotti chimici e la relativa modellizzazione mediante software di LCA per ricavarne le emissioni di GHG. Quest’aspetto non è ancora stato completamente normato. E’ da segnalare infatti che è stato recentemente pubblicato ed è in fase di sperimentazione un documento da parte del GHG Protocol per la quantificazione delle emissioni clima alteranti relative allo Scope 3 . In parallelo, in ambito ISO, è in fase di discussione una bozza di norma, ISO 14065, anch’essa finalizzata a fornire una guida sulla quantificazione delle emissioni indirette legate ai prodotti e servizi acquistati. La discussione, in ambito TC 207 dell’ISO è ancora molto vivace perché occorre ottemperare esigenze molto diverse tra loro, basta pensare ai casi estremi di un’organizzazione di grande distribuzione che può avere più di 10.000 prodotti diversi in catalogo, rendendo praticamente impossibile la quantificazione delle emissioni associate a ciascuno di esso, e l’altro di un’azienda che si limita ad assemblare parti prodotte altrove, nel qual caso la non contabilizzazione delle emissioni associate ai componenti acquistati renderebbe privo di significato il calcolo del Carbon Footprint. Formula Servizi si avvicina a questo secondo caso, utilizzando per la fornitura dei propri servizi diverse decine di prodotti chimici.

La relativa semplicità di estensione di una certificazione ambientale o di una registrazione EMAS al Carbon Footprint dell’organizzazione rende molto appetibile questo strumento sia per le aziende, che trovano così uno strumento di molta più facile comunicazione verso il pubblico rispetto ai sistemi di gestione ambientale; d’altro canto, per una regione come l’Emilia Romagna leader in Italia per le certificazioni ambientali e le registrazioni EMAS, risulta uno strumento di PCS facilmente promuovibile e interessante perché direttamente correlabile con obiettivi politici di riduzione delle emissioni di gas serra.

Le cose diventano un po’ più complicate quando si passa agli strumenti di prodotto, Carbon Footprint di prodotto, LCA, e DAP. Il termine prodotto comprende sia i beni che i servizi, come implicito nel caso studio prescelto. Il passaggio all’approccio di prodotto/servizio consente ovviamente di analizzare, migliorare e comunicare gli aspetti ambientali specifici di ciò che l’Azienda “vende” e quindi di notevole efficacia per i rapporti con i clienti. Le complicazioni derivano sostanzialmente da due aspetti: la necessità di attribuire gli impatti al singolo prodotto in esame e, specificamente per i servizi, la difficoltà nel definire una unità funzionale che possa consentire il confronto fra servizi di aziende diverse. Riguardo al primo punto, il tema è ben conosciuto e risolvibile con modalità ampiamente condivise da parte della comunità LCA. Rimane comunque un elemento che complica l’analisi rispetto al Carbon Footprint dell’intera organizzazione, allungando i tempi e incrementando i costi. Il secondo punto è risultato particolarmente significativo nel caso scelto. Come discusso precedentemente, non è per niente facile definire una unità di servizio di pulizia ospedaliera totalmente indipendente dalle specificità dell’ospedale e che quindi consenta di confrontare gli impatti dei servizi di due aziende diverse. L’approccio proposto, ossia la definizione di un reparto tipo, è una possibile soluzione che però necessita comunque di ulteriori approfondimenti. Quest’aspetto è di particolare significatività nel caso di DAP: in assenza di una reale comparabilità lo strumento infatti non è di particolare interesse/utilità. Questo aspetto sarà comunque oggetto di un approfondimento con l’Azienda e il suo certificatore.

Riguardo al Carbon Footprint di prodotto e il suo confronto con una LCA completa sono da sottolineare due aspetti: primo, lo sforzo necessario per applicare i due strumenti è praticamente identico; secondo, l’LCA consente di evidenziare anche altri possibili impatti significativi oltre al cambiamento climatico. Nel caso in oggetto Respiratory Inorganics è risultato significativo ed è un impatto non direttamente correlabile con i consumi energetici e quindi con le emissioni di gas climalteranti, che con il Carbon Footprint non risulta evidenziato, portando a possibili interpretazioni incorrette. Ovviamente dal punto di vista della comunicazione il Carbon Footprint è molto più diretto e “facile” di una LCA completa e questo lo rende comunque uno strumento molto interessante, da accompagnare però sempre da una valutazione anche della rilevanza di altri impatti.

di Paolo Masoni, Pier Luigi Porta – ENEA, Laboratorio LCA e Eco-progettazione

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