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Cella betavoltaica alla perovskite, raggiunto un nuovo traguardo

Ottenuto un aumento di circa 56.000 volte della mobilità degli elettroni e una potenza stabile fino a 9 ore controllando con precisione la struttura cristallina della perovskite

Cella betavoltaica alla perovskite: raggiunta una nuova stabilità
llustrazione schematica del meccanismo della cella betavoltaica a perovskite. Crediti: Chemical Communications (2025). DOI: 10.1039/D4CC05935B

Prima dimostrazione della fattibilità pratica del betavoltaico in perovskite

Ricordate la prima batteria al carbonio-14 creata nel Regno Unito a fine 2024? Oggi arriva un nuovo passo avanti per la tecnologia, direttamente dall’Istituto di Scienza e Tecnologia di Daegu Gyeongbuk (DGIST), in Corea del Sud. Qui un gruppo di scienziati ha dimostrato la fattibilità pratica delle celle betavoltaiche a base di perovskite, migliorandone la stabilità di fase e l’efficienza di conversione.

Un risultato raggiunto mettendo mano alla ricetta stessa della perovskite e impiegando una specifica architettura della cella che coinvolge il carbonio sia sotto forma di nanoparticelle che di punti quantici.

“Questa ricerca rappresenta la prima dimostrazione al mondo della fattibilità pratica delle celle betavoltaiche”, ha commentato con soddisfazione il professor Su-Il In, alla guida del team. “Intendiamo accelerare la commercializzazione di tecnologie di alimentazione di nuova generazione per ambienti estremi e perseguire ulteriormente la miniaturizzazione e il trasferimento tecnologico”.

Cosa sono le celle betavoltaiche?

Le celle betavoltaiche sono batterie in grado di utilizzare radioisotopi come fonte di energia. Nel dettaglio, sfruttano le coppie elettrone-lacuna prodotte dalla scia di ionizzazione delle radiazioni beta (β) che attraversano un semiconduttore. La loro architettura è costituita principalmente da un elettrodo contenente l’isotopo radioattivo, un materiale semiconduttore – in grado di assorbire le radiazioni β e convertirle in elettricità – e un controelettrodo.

Nati negli anni ’70, questi dispositivi si distinguono ancora oggi per un’elevata densità energetica e una lunga durata, caratteristiche che le rendono ideali per alimentare dispositivi in ambienti remoti o difficili. Non solo: presentano anche eccellenti vantaggi in termini di sicurezza biologica, poiché non penetrano la pelle umana. Motivo per cui uno dei primi impieghi di questa tecnologia è stato all’interno dei pacemaker.

Il tallone d’Achille della cella betavoltaica

Di contro, tuttavia, le prestazioni complessive delle celle betavoltaiche richiedono ancora miglioramenti per l’applicazione pratica a causa di un’efficienza di conversione energetica che non supera il 4%.

In questo contesto l’obiettivo è ottimizzare l’assorbimento delle radiazioni β. Come? Impiegando nuovi materiali avanzati per lo strato di assorbimento, quali ad esempio le perovskiti ibride di alogenuri organici-inorganici. Questi semiconduttori hanno suscitato parecchio interesse nel campo grazie alla promessa di portare l’efficienza di conversione del betavoltaico fino al 28%.

Ottimi sulla carta, meno nella realtà. La sensibilità all’umidità e all’ossigeno delle perovskiti porta a degradazione e transizioni di fase che compromettono l’efficienza e la stabilità a lungo termine. Inoltre, è stato visto che fattori come la presenza di difetti, stati di trappola e lo spessore del film di perovskite possono influire sull’efficienza finale a causa di perdite per ricombinazione non radiativa o di effetto schermatura.

La cella betavoltaica del DGIST

Il lavoro del team sudcoreano si inserisce a questo livello. Il gruppo ha impiegato due additivi nel semiconduttore:

  • il cloruro di metilammonio (MACl), efficace nel migliorare l’efficienza della perovskite;
  • il cloruro di cesio (CsCl), in grado di stabilizzare la struttura cristallina della perovskite migliorandone la stabilità a lungo termine.

Quindi ha realizzato un’unità quantistica ibrida combinando un elettrodo isotopico a base di nanoparticelle e punti quantici di carbonio-14 con la perovskite migliorata. Il risultato? La cella betavoltaica sviluppata ha ottenuto un aumento di circa 56.000 volte della mobilità degli elettroni rispetto ai sistemi convenzionali, mantenendo una potenza stabile per 9 ore di funzionamento continuo.

“La cella betavoltaica MACl/CsCl-FAPbI3 ha raggiunto parametri impressionanti, tra cui una densità di corrente di cortocircuito di 15,01 nA/cm2, una tensione a circuito aperto di 2,75 mV e un’efficienza di conversione dell’1,83%, tutti miglioramenti significativi rispetto ai lavori precedenti. Rispetto ad altre celle betavoltaiche riportate in letteratura, la nostra […] dimostra la più alta densità di potenza per sorgente radioattiva mai registrata, posizionandosi come una potenziale svolta nella tecnologia delle batterie nucleari”.

La ricerca è stata pubblicata su Chemical Communications.

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About Author / Stefania Del Bianco

Giornalista scientifica. Da sempre appassionata di hi-tech e innovazione energetica, ha iniziato a collaborare alla testata fin dalle prime fasi progettuali, profilando le aziende di settore. Nel 2008 è entrata a far parte del team di redattori e nel 2011 è diventata coordinatrice di redazione. Negli anni ha curato anche la comunicazione e l'ufficio stampa di Rinnovabili. Oggi è Caporedattrice del quotidiano e, tra le altre cose, si occupa delle novità sulle rinnovabili, delle politiche energetiche e delle tematiche legate a tecnologie e mercato.