La riforma del mercato elettrico britannico

Il provvedimento promette una trasformazione radicale del sistema elettrico nazionale per modernizzare il paese di fronte alla nuova sfida energetica

David Cameron, Primo Ministro britannico

Il governo Cameron dovrebbe presentare la prossima settimana in Parlamento la versione definitiva della riforma del mercato elettrico (Electricity Market Reform), provvedimento chiave del più ampio programma di riassetto del settore energia (Energy Bill). Attesa ormai dalla fine del mese scorso, la riforma è diventata ostaggio delle divisioni all’interno della coalizione di governo tra conservatori e liberal-democratici. Le due anime dell’esecutivo si sono scontrate recentemente su vari aspetti della politica energetica nazionale, alimentando un clima di incertezza che spaventa gli investitori e impensierisce i gruppi ambientalisti. Il progetto di riforma del mercato elettrico viene considerato come la più grande riorganizzazione del settore dalle privatizzazioni della Thatcher nei primi anni novanta ed avrà un impatto profondo sulla definizione del futuro energetico del paese.

 

La Gran Bretagna ha bisogno di investire circa 140 miliardi di euro in infrastrutture e impianti di produzione di energia elettrica da qui al 2020. Secondo le ultime stime dell’autorità per l’energia Ofgem, un quinto delle centrali attualmente operative dovrebbe chiudere entro la fine del decennio, creando un vuoto nel sistema nazionale che se non riempito per tempo potrebbe causare interruzioni e blackout. La differenza tra potenza media disponibile e domanda complessiva rischia di ridursi ad un misero 4% nell’arco di soli tre anni, dal 14% attuale. Tramite prezzi garantiti e misure di supporto per impianti di backup, il piano di riforma del mercato elettrico  intende creare un contesto favorevole alla realizzazione di centrali nucleari, impianti ad energia rinnovabile e sistemi di cattura e stoccaggio (CCS), il tutto nel rispetto degli ambiziosi impegni nazionali in materia di riduzioni di gas inquinanti oltre il 2020 (del 50% al 2027 sui livelli del 1990 e dell’80% nel 2050).

Ma è proprio nell’ambito dei tagli alle emissioni di CO2 che le crepe all’interno della coalizione sono emerse con particolare vigore. Il Ministero per l’Ambiente ed il Cambiamento Climatico, con alla guida il liberal-democratico Ed Davey, è favorevole alla “decarbonizzazione” del sistema elettrico entro 2030, una posizione che trova supporto in una parte minoritaria del partito conservatore ed una fetta consistente del mondo imprenditoriale. Le associazioni di categoria dei settori industriali attivi nella green economy hanno reso pubblica la loro posizione, auspicando certezza politica e regolamentare prima di investire in un settore delicato come quello dell’energia.

 

Con ‘obiettivo di decarbonizzare entro il 2030, la Commeettee of Climate Change, organo indipendente per la valutazione delle politiche ambientali, ha suggerito un limite di 50 grammi di CO2 per ogni kWh generato  , una soglia che di fatto bandirebbe la realizzazione di impianti alimentati da combustibili fossili sprovvisti di sistemi di cattura e stoccaggio. Per avere un’idea degli attuali livello di inquinamento, una centrale a carbone produce mediamente 800g per kWh; un impianto a gas circa la metà.

L’Emissions Performance Standard attualmente in vigore nel Regno Unito consente alle centrali a gas di rilasciare fino a 450g di CO2 per kWh, un limite che il ministero del Tesoro, in mano al conservatore George Osborne, sarebbe disposto a tagliare solo in maniera graduale e magari estendere oltre il 2030 per gli impianti ad oggi in fase di autorizzazione. In questo modo non sarebbero costretti a munirsi di sistemi di stoccaggio dei gas inquinanti quando e se i nuovi limiti dovessero diventare obbligatori.

 

 

Il ministro Osborne rappresenta solamente la figura più di spicco di quella compagine del partito conservatore piuttosto scettica sul contributo delle rinnovabili ed incline a fare del gas una delle principali risorse energetiche, insieme al nucleare e alle fonti non-convenzionali, per soddisfare la domanda interna nel medio-lungo periodo e moderare i prezzi in bolletta. Il gas come combustibile che non si limiti insomma ad un ruolo di supporto alle rinnovabili nella fase di transizione verso un futuro carbon-free, ma che sia considerato di pari importanza nel mix energetico domestico. In sintonia con alcuni produttori nazionali di energia elettrica, Osborne si è fatto attivo promotore di un nuovo “dash for gas”, una nuova corsa al gas simile a ciò che è avvenuto nel paese nei primi anni novanta, quando l’abbondanza di risorse nel mare del Nord e la privatizzazione del mercato elettrico contribuirono ad un boom nella costruzione di centrali.

Il ministro si è detto pronto ad introdurre agevolazioni fiscali per lo sviluppo domestico delle riserve di shale gas, per ora ancora sotto osservazione ma dotate, si spera, di grosso potenziale. Il partito conservatore, salito al potere con l’impegno di promuovere il governo più verde di sempre, sembra avere gradualmente abbandonato le proprie credenziali green, allineandosi ad un mutamento d’opinione che ha comunque investito una buona fetta dell’elettorato. La necessità di ridurre i costi della bolletta energetica ha assunto precedenza sul resto.

 

Nel frattempo l’obiettivo di decarbonizzare il settore potrebbe passare nelle mani della prossima assemblea parlamentare, con elezioni previste nella primavera del 2015, secondo quanto si è appreso lunedì da alcuni media nazionali. Una scappatoia che potrebbe alleggerire le tensioni nel breve periodo, ma che difficilmente sarebbe in grado di placare i timori di aziende ed promotori dell’agenda green.

 

Un ulteriore elemento controverso della riforma del mercato elettrico è costituito dai cosiddetti Contracts for Difference (CfD), un meccanismo di supporto in stile Feed-in Tariff che intende garantire un introito costante e prevedibile ai produttori, soprattutto a favore di quegli impianti che richiedono ingenti investimenti in conto capitale. Il valore dei CfD (il cosiddetto strike price) andrebbe definito in sede amministrativa, tramite negoziazioni con gli operatori di settore. Nell’arco di quattro anni i nuovi contratti andrebbero a sostituire il sistema di incentivazione per gli impianti di grosse dimensioni alimentati da fonti non fossili, attualmente coperti dai certificati verdi (Renewable Obligation). Il Tesoro tuttavia detiene potere di veto sull’ammontare che i distributori di energia elettrica sono autorizzati a passare ai consumatori finali per il supporto di misure ambientali, tra le quali sarebbero inclusi i Contracts for Difference. E’ naturale prevedere l’opposizione del ministro Osborne ad uno strike price particolarmente generoso a favore delle rinnovabili. Rimane inoltre da stabile se lo Stato debba agire come garante ultimo dei contratti, un onere che un governo a maggioranza conservatore alle prese con un’economia ansimante appare poco incline ad assumere.

 

Nel clima di incertezza che sta accompagnando il dibattito sulla riforma del mercato elettrico, rimangono dubbi sull’effettiva portata del provvedimento. Secondo il Financial Times, il documento che verrà presentato a breve potrebbe essere simile al testo pubblicato lo scorso giugno, ossia generico negli impegni e scarso nei dettagli, il risultato insomma di una coalizione di governo che stenta a trovare una posizione comune sulle priorità in materia di energia ed ambiente. Solo la legislazione secondaria prevista nei prossimi mesi sarebbe in grado di dare contenuto alla riforma, con il rischio di allungare ulteriormente i tempi e generare ulteriori, frustranti negoziazioni.

 

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