Rinnovabili • Accordo di Parigi: le major del petrolio scommettono sul fallimento Rinnovabili • Accordo di Parigi: le major del petrolio scommettono sul fallimento

Le grandi compagnie petrolifere sono sempre più lontane dall’Accordo di Parigi

Non stagnazione, ma un vero e proprio arretramento: secondo l’ultimo rapporto di Carbon Tracker, nessuna delle principali compagnie petrolifere e del gas è allineata agli obiettivi climatici compatibili con il Paris Agreement, in vigore da 10 anni. E molte stanno aumentando i propri investimenti nei combustibili fossili, in contrasto con la traiettoria di decarbonizzazione globale

Accordo di Parigi: le major del petrolio scommettono sul fallimento
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A dieci anni dalla firma dell’Accordo di Parigi, il divario tra gli impegni climatici e le strategie delle compagnie petrolifere globali non si è ristretto. Anzi, si allarga. È questo il dato più importante che emerge dal nuovo rapporto “Paris Maligned III”, pubblicato da Carbon Tracker, think tank finanziario indipendente specializzato nell’analisi dei rischi della transizione energetica.

Nessuna compagnia è allineata all’Accordo di Parigi: peggiorano anche le europee

Il rapporto valuta l’allineamento climatico di 30 tra le più grandi compagnie petrolifere e del gas al mondo, analizzando 6 metriche. Il risultato generale è chiaro: nessuna azienda ottiene un punteggio superiore alla “D”. E molte registrano un regresso rispetto all’anno precedente.

“Le compagnie stanno scommettendo sul fallimento dell’Accordo di Parigi”, si legge nel rapporto.

Persino i gruppi europei, tradizionalmente più attenti alle dinamiche ESG, hanno visto peggiorare i propri punteggi. BP è scesa da una D a una F dopo aver abbandonato l’obiettivo di ridurre la produzione. Shell, TotalEnergies, Equinor ed Eni hanno esteso o aumentato i propri obiettivi di produzione.

Accordo di Parigi e fossili: la top ten è dominata da europei

A occupare il 1° posto nel ranking è la spagnola Repsol, l’unica – insieme alla britannica Harbour Energy – ad aver pianificato una riduzione della produzione. Ma anche Repsol si ferma a una valutazione di “D” e non eccelle in tutte le metriche, come ad esempio quella sulla remunerazione dei dirigenti.

All’estremo opposto troviamo ConocoPhillips (Stati Uniti), e 3 compagnie nazionali appena incluse nell’analisi: PEMEX (Messico), Sonatrach (Algeria) e KPC (Kuwait). Tutte hanno ottenuto il giudizio più basso possibile, “H”.

I risultati nelle 6 metriche di Carbon Tracker

Il rapporto basa il giudizio sull’allineamento al Paris Agreement della traiettoria delle major su 6 aree di valutazione. Vediamo più nei dettagli come si comportano le aziende fossili in ciascun ambito:

  • Opzioni di investimento: solo Saudi Aramco ottiene un punteggio di 3, grazie al basso costo di produzione. Le peggiori sono le canadesi (come Suncor) e la statunitense Ovintiv, con investimenti potenziali completamente incompatibili anche con uno scenario a +2,4°C di riscaldamento globale.
  • Approvazioni recenti di nuovi progetti: molti nuovi progetti, soprattutto nel settore LNG, sono incompatibili con una traiettoria verso +1,7°C e talvolta anche con una verso +2,4°C. Tra questi: Verus (Eni, Australia), Willow (ConocoPhillips, USA) e Long Lake Northwest (CNOOC, Canada).
  • Piani di produzione: quasi tutte le aziende prevedono di aumentare la produzione nei prossimi anni. Tra i peggiori, ConocoPhillips (+37% entro il 2032), Eni (+27% entro il 2030), e QatarEnergy (+84% nella produzione LNG entro il 2031). Uniche eccezioni: Repsol (-4%) e Harbour (-5%).
  • Obiettivi di riduzione delle emissioni gas serra: solo Eni ottiene il punteggio massimo (3), ma anche questo è mitigato dal forte ricorso a offset, cattura e stoccaggio della CO2 (CCS) e altre strategie considerate di dubbia efficacia. La maggioranza delle aziende, incluse molte compagnie statali, non ha target credibili (ossia, ottengono punteggio 0).
  • Obiettivi per le emissioni di metano: questa metrica, introdotta per la 1° volta quest’anno da Carbon Tracker, mostra punteggi lievemente migliori rispetto a quelle sulle emissioni di gas serra, ma ancora lontani dalla sufficienza. Le compagnie trascurano le emissioni da asset non operati direttamente o dalla filiera midstream.
  • Remunerazione dei dirigenti: solo Occidental evita di incentivare direttamente la crescita produttiva (punteggio 3), ma non collega in modo solido la retribuzione a obiettivi di riduzione delle emissioni. Le compagnie statali non pubblicano alcuna informazione al riguardo.

Rischio crescente di asset non recuperabili

Carbon Tracker sottolinea che questi dati pongono seri interrogativi per gli investitori, anche quelli senza un esplicito orientamento ESG e sensibile agli obiettivi climatici internazionali. Crescita delle auto elettriche, saturazione del mercato LNG, imminente picco nella domanda di petrolio e gas rendono sempre più rischiose le nuove scommesse sui fossili.

Aumenta dunque il rischio di transizione per tutti questi soggetti, ovvero la possibilità che gli asset approvati oggi diventino economicamente non redditizi o “stranded” nei prossimi decenni.

“La maggior parte dei produttori ignora la realtà della domanda in calo. Gli investitori – con o senza un mandato climatico – dovrebbero pensarci due volte prima di sostenere nuova produzione ad alto rischio per guadagni di breve periodo”, sottolinea l’autore del rapporto, Rich Collett-White.

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About Author / Lorenzo Marinone

Scrive per Rinnovabili dal 2016 ed è responsabile della sezione Clima & Ambiente. Si occupa in particolare di politiche per la transizione ecologica a livello nazionale, europeo e internazionale e di scienza del clima. Segue anche i temi legati allo sviluppo della mobilità sostenibile. In precedenza si è occupato di questi temi anche per altri siti online e riviste italiane.