PROBLEMA: quando la soluzione sta nel modo di riconoscerlo

Prevale a scuola, nel discorso pubblico e nella cultura diffusa un’idea di educazione alla cittadinanza in termini di regole, leggi, valori e principi. Ma in questo modo ci si dimentica che tutte le istituzioni umane sono frutto di passate esperienze in cui, anzitutto, si trattava di trovare risposte, soluzioni, equilibri di potere di fronte a problemi collettivi. E se invece educassimo a vedere la realtà civica proprio in termini di problemi?

Immagine di Daniela Martinelli

di Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo

Ogni realtà umana è inserita in sistemi dinamici e complessi, per loro natura non del tutto prevedibili e perennemente generatori di “problemi”. Imparare a leggere il mondo in termini di problemi dovrebbe perciò risultare l’obiettivo più basilare e ovvio dell’agire educativo umano, dato che è essenziale per la sopravvivenza. Certo, nei contesti sociali, nelle epoche e nei luoghi – sempre particolari e privilegiati – in cui gli esseri umani possono permettersi di vivere con fiducia una serena quotidianità, come se fosse destinata a durare intatta indefinitamente, alfabetizzare le coscienze civiche a riconoscere e discutere problemi collettivi (da non confondere assolutamente con il “sensibilizzare” a problemi pre-definiti a monte) implica uno sforzo controintuitivo e una disponibilità a mettere in questione le proprie certezze, entrambe imprese di cui non è affatto banale farsi carico né da parte di chi insegna né da parte di chi apprende. Ci sembra piuttosto evidente, tuttavia, che nonostante la posizione a lungo privilegiata della società europea nel mondo, il contesto in cui viviamo oggi mostra con crescente violenza che le nostre apparenti certezze si stanno sgretolando e ci si parano innanzi problemi irrisolti che richiedono di essere affrontati.

ALLA RADICE DI UN CONCETTO                                                               

In effetti non è strano che i problemi, quelli autenticamente… “autentici”, ci spuntino davanti. Il lessema deriva infatti dal gr. πρόβλημα -ατος, vale a dire un sostantivo derivato del verbo προβάλλω che significa “mettere avanti, proporre”. Il prefisso προ- corrisponde sia per suoni che per significato al latino “pro-”, da cui arriva anche all’italiano. Più curiosa la storia del tema -βάλλω, che l’etimologia indoeuropea riconduce alla radice *gʷel- cioè “gettare, sgorgare” – da cui deriva direttamente, ad esempio, la parola tedesca Quelle che vuole appunto dire “sorgente, fonte”. Se un problema ci si pone di fronte, infatti, non è tanto o soltanto perché siamo noi a mettercelo – anche se in un certo senso, i problemi, hanno sempre bisogno di essere riconosciuti per esistere come tali, e come vedremo il loro riconoscimento non va affatto da sé. Il punto tuttavia è che i problemi rinviano anche a qualcosa di terzo, a una realtà almeno in parte indipendente dalle nostre interpretazioni e dalle nostre conoscenze: una realtà che, attraverso i problemi, si manifesta, emerge, sgorga appunto davanti ai nostri occhi e ci impone in qualche modo di farci i conti, di mettere in questione – e se la forma “problema”, con le sue varianti morfologiche, è onnipresente in tutte le lingue europee, non è un caso che sul piano semantico si imparenti sempre con i termini che indicano il concetto di domanda, di interrogazione.

Ma che cosa accade in altre famiglie linguistiche? Tra i modi per rendere l’idea di problema in cinese, per esempio, vi è 问题 che indica proprio la “questione” e che, da un punto di vista etimologico, rinvia col primo ideogramma all’azione di “ascoltare” e con il secondo, originariamente, alla testa come parte anatomica: immagine icastica, forse, del gesto con cui il pensiero si volge in ascolto, cioè appunto interroga e quindi si dispone a ricevere le risposte di un interlocutore ma anche a mettere in questione le sue idee precedenti. Vi è poi un secondo modo altrettanto interessante con cui il cinese può rendere il concetto di problema: 困难, alla lettera “difficoltà”, dato che il primo ideogramma rinvia a un albero rinchiuso, circondato o anche proprio assediato, prigioniero, e il secondo indica male, sofferenza, dolore. Anche nelle culture indoeuropee il “problema” ha questa sfumatura negativa, che richiama irresistibilmente la necessità di superarlo, risolverlo, uscirne. Lo stesso significato letterale si trova anche nel termine arabo più quotato per tradurre il lessema italiano: مشكلة (in alfabeto fonetico /muškila/) che anche etimologicamente rinvia al concetto di “difficoltà”.

LA DIFFICOLTÀ DI METTERE IN QUESTIONE

Ora, sembra un atteggiamento universalmente umano quello di evitare, di fare volentieri a meno tanto delle difficoltà quanto dei problemi. Al punto che preferiamo ignorarli finché è possibile e poi risolverli in fretta, non appena diventano ineludibili: un po’ come accade all’idea di “malattia”, per lo meno nella cultura occidentale. E in effetti quelli che ci si manifestano come problemi ormai “ineludibili” sono spesso semplicemente le manifestazioni sintomatiche acute di processi più generali su cui non abbiamo saputo o voluto riflettere per tempo, con la calma e con l’apertura a prospettive più numerose e più ampie senza cui è impossibile cogliere fenomeni e processi di lungo termine. Questo ci indica, forse, che i problemi, prima ancora di essere delle “difficoltà” sono proprio difficili da accettare. Eppure la capacità di problematizzare, cioè di interrogare il mondo e la propria visione di esso, è un requisito essenziale per lo sviluppo culturale inteso come strumento evolutivo con cui l’essere umano assicura la sua sopravvivenza, tanto sulla scala individuale quanto sulle varie scale collettive. Questa capacità non va confusa con il cosiddetto problem solving: a monte di valori come arguzia, reattività, pragmatismo, intraprendenza, resilienza, resistenza a ciò che accade, le soggettività umane – individualmente o, con molta più efficacia, in gruppo – possono esercitarsi a mettere in questione proprio ciò che sembra più scontato e non problematico, possono sviluppare l’abito mentale della ricerca e condivisione di problemi potenziali, possono in una parola abituarsi davvero a concepire il mondo per problemi-domande che aprono invece che per problemi-difficoltà che chiudono prospettive.

VALORIZZARE L’INCERTEZZA

Si tratta di provare a valorizzare appieno, culturalmente, l’incertezza fondamentale che caratterizza l’universo in cui viviamo o per lo meno le nostre capacità cognitive all’interno di esso. È forse un salto evolutivo su cui varrebbe la pena investire educativamente, dato che siamo per ora immersi in una logica dell’emergenza e dell’urgenza che, oltre ad essere intimamente nemica della vita democratica, è anche potenzialmente esiziale per il futuro biologico della specie. Sono passati 50 anni dal rapporto sui Limiti alla crescita (Meadows et al., 1972), che già indicava con chiarezza le contraddizioni sistemiche e i rischi generatori di molteplici problemi colossali per l’intera umanità. Tuttavia, non è stato possibile diffonderne consapevolezza collettiva e occuparsene seriamente fin da allora: ci troviamo mezzo secolo dopo a riconoscerne la lungimiranza, quando però si manifestano ormai in modo evidente e forse irreversibile gli effetti più gravi di quelle contraddizioni e quando la coscienza collettiva si forma ormai a colpi di emergenze concrete che restringono gli spazi di negoziazione sociale e inclusività decisionale.

SENTIRE, DEFINIRE, CONDIVIDERE PROBLEMI

Uno dei motivi per cui l’emergenza è nemica della vita democratica è proprio il fatto che, nell’urgenza e nella paura cui essa di norma si accompagna, la definizione del problema diventa appannaggio di chi sembra detenere il potere di risolverlo. Può sembrare un vantaggio, ma si tratta di un paradosso cui prestare grande attenzione: perché una cattiva interpretazione e quindi comunicazione del problema può accreditare soluzioni che non sono tali o che non bastano o che non sono le più adeguate nella situazione reale – spesso, avere il potere di definire il problema crea soltanto la parvenza del potere di risolverlo. Il problema potrebbe essere definito altrimenti, le soluzioni più adeguate potrebbero essere in realtà altre…: ciò di cui una qualsiasi collettività può rendersi conto solo nella misura in cui resta orientata all’ascolto di quanti più punti di vista e modi di sentire possibili, solo se è dotata di sistemi efficaci e non distorsivi che permettono a tutti di far circolare e discutere informazioni e opinioni, solo se è organizzata in luoghi e tempi dedicati alla condivisione, alla sintesi e alla deliberazione comune.

PROBLEMI, SCIENZA E DEMOCRAZIA

Accade invece che più sono grandi l’emergenza e la paura percepite, meno spazio rimane alla possibilità di discutere e negoziare la natura del problema stesso da affrontare. Nella realtà, non esiste problema di rilevanza collettiva che non sia complesso: cioè irriducibile a singoli approcci disciplinari e pregno di conseguenze etiche e sociali. Ma in una società a così intensa specializzazione e divisione del lavoro come quella attuale è facile cadere nella rassicurante illusione di poter affidare ciascun problema a una specifica categoria di “consulenti esperti” chiamati a determinarne la miglior soluzione o, più sottilmente, a dare una parvenza di legittimità “scientifica” alla soluzione politicamente prevalente. Restiamo in guardia da questo tipo di logica ogni volta che ne sospettiamo la presenza nella vita collettiva: è semplicemente una logica insostenibile. Dimentica infatti che le implicazioni etiche e sociali dei problemi collettivi e dei modi di affrontarli richiedono comunque scelte appunto politiche e quindi non meramente riducibili a qualsiasi “certezza” tecnico-scientifica. Dimentica peraltro che la scienza non è affatto il regno delle “certezze” e, anzi, si potrebbe proprio definirla come il campo di azione umana in cui la facoltà di conoscere fa dell’incertezza il proprio principio guida. Dimentica che l’ideale democratico è in fondo la ricerca di modi organizzativi che consentano alle comunità umane di confrontarsi solidalmente con l’incertezza. Dimentica infine che proprio per questo tanto la pratica democratica quanto la pratica scientifica si nutrono di contestazioni, di esperimenti, di confutazioni, di dibattito reale, acceso e aperto.

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