Secondo lo studio pubblicato su Nature Communications, la frammentazione delle plastiche in micro e nanoplastiche è strettamente legata alla loro struttura semicristallina. Circa il 70% dei polimeri commerciali presenta una morfologia composta da strati alternati di regioni cristalline e amorfe, ciascuna spessa decine di nanometri.

Le microplastiche sono ovunque. Persino nella neve dell’Antartide, fino dentro il sangue umano. Anche nelle profondidi mari ed oceani. Grazie alle dimensioni nanoscopiche che possono raggiungere, sono in grado di danneggiare le cellule e alterare il DNA degli esseri viventi. Ma come si creato questi minuscoli rifiuti? La risposta arriva da un studio condotto nell’università americana Columbia, che ha delineato il processo molecolare che causa la rottura della plastica in piccolissimi frammenti.
Microplastiche diffuse nell’ambiente
Circa il 75% di tutta la plastica utilizzata viene smaltita in discarica o gettata nell’ambiente, dove si frammenta a causa di una serie di fattori di degradazione: idrolisi, ossidazione, irradiazione ultravioletta e sollecitazioni meccaniche.
La persistenza temporale di queste particelle permette loro di penetrare le membrane cellulari e di accumularsi all’interno degli organismi, danneggiando la vita acquatica, le piante e gli esseri umani. In letteratura scientifica la loro presenza nel sangue è correlata a malattie cardiache, ictus e morte.
Cosa ha scoperto lo studio
E’ noto è che la forza strutturale della plastica è anche la sua debolezza. Il 70/80% di tutte le plastiche sono polimeri semicristallini. Proprio per queste caratteristiche sarebbero inclini a formare micro e nanoplastiche. Quel che hanno fatto i ricercatori alla Columbia Engineering è osservare un pezzo di plastica attraverso un potente microscopio, notando strati alternati di materiale duro e materiale morbido.
Negli strati duri, le molecole di plastica sono rigidamente organizzate in forti strutture cristalline, mentre quando gli strati si ammorbidiscono, le molecole non sono strutturate e formano una massa morbida e amorfa. Quando migliaia di questi strati vengono impilati insieme, il risultato è un materiale leggero, resistente ed estremamente versatile.
Frammenti duri non si degradano
In un articolo pubblicato su Nature Communications, i ricercatori spiegano che il processo di decomposizione in piccole particelle, inizia proprio negli strati più morbidi. Questi, con il tempo si indeboliscono, e a causa del degrado ambientale si staccano rapidamente. L’accumulo di queste rotture nelle zone amorfe porta alla perdita di integrità meccanica del materiale, causando il distacco di frammenti costituiti da pile di lamelle cristalline.
Ma i problemi veri sorgono quando il cedimento di uno strato morbido, a catena permette anche agli strati duri di staccarsi. Secondo i ricercatori sono proprio questi frammenti cristallini – meno inclini ad una ulteriore degradazione – a formare le nano e microplastiche. I frammenti possono persistere nell’ambiente per secoli e causare danni significativi. Al contrario, i polimeri non cristallini, privi di una microstruttura ben definita, non formano nanoplastiche in modo significativo.