Il report 2025 di Forest Canopy sul rischio deforestazione legato alle dinamiche delle supply chain globali rivela che 168 tra le 500 compagnie più influenti nelle filiere delle "forest commodities" non hanno preso alcun impegno pubblico per fermare la deforestazione. Un ritardo che minaccia clima, diritti umani e stabilità economica globale

Nonostante gli impegni globali per arginare il rischio deforestazione entro il 2030, il 34% delle aziende più influenti nellefiliere delle materie prime legate alla distruzione forestale non ha ancora preso alcun impegno pubblico per eliminarla dalle proprie catene di approvvigionamento.
È quanto emerge dal nuovo rapporto Forest 500 2025, pubblicato da Global Canopy, che ogni anno valuta le politiche ambientali delle aziende che commerciano in prodotti ad alto rischio forestale – come soia, olio di palma, carne bovina, pelle, legname, cacao, caffè, gomma e carta.
Rischio deforestazione: chi sono i leader, i ritardatari e la “late majority”
Il dato è allarmante: 168 aziende sono definite “laggards”, ritardatarie che ostacolano i progressi dell’intero sistema. Di queste, 24 non hanno mai formulato un impegno nemmeno dopo 11 anni di monitoraggio. Al polo opposto, solo 16 aziende si qualificano come “leader”, con impegni solidi e una buona implementazione su tutte le commodity valutate.
“Mentre le aziende ignorano i crescenti rischi a favore dei profitti a breve termine, si perdono opportunità cruciali per contrastare la deforestazione e le violazioni dei diritti umani ad essa associate”, denuncia Global Canopy.
Il rapporto classifica le aziende in 3 categorie in base a come affrontano il rischio deforestazione:
- leader (3%): hanno impegni solidi e comprovati per tutte le materie prime che gestiscono;
- late majority (63%): hanno impegni parziali o poco ambiziosi, spesso solo su alcune commodity sotto i riflettori pubblici;
- laggards (34%): non hanno alcun impegno pubblico.
In totale, solo il 3% delle aziende ha implementato misure efficaci per tutte le commodity. E appena l’8% dichiara oltre il 50% dei propri volumi “deforestation and conversion-free”, ossia non legati a disboscamento né a cambiamento dell’uso del suolo.
Tra greenwashing e passi indietro: troppi impegni senza azione
Certo, non mancano le aziende che si muovono: quasi la metà ha preso almeno un impegno per eliminare la deforestazione entro il 2025. Ma solo una manciata di aziende è sulla buona strada per rispettare la scadenza. Molte, denuncia Global Canopy, stanno facendo marcia indietro, rimuovendo impegni o riducendo l’ambizione, soprattutto negli Stati Uniti.
Anche chi ha impegni parziali spesso sceglie accuratamente le commodity su cui agire in base alla visibilità mediatica, tralasciando settori altrettanto critici. Ad esempio: solo il 37% delle aziende con esposizione alla carne bovina – la principale causa di deforestazione globale – ha un impegno specifico, contro il 76% per l’olio di palma.
E ancora:
- solo il 6% delle aziende ha una politica articolata e completa sui diritti per una o più commodity, e appena 7 aziende (l’1%) coprono tutti i 6 indicatori chiave;
- solo il 30% delle aziende a monte (produzione e trasformazione) ha meccanismi per tracciare le commodity fino all’unità di produzione;
- solo il 12% delle aziende a valle (distribuzione e vendita) ha meccanismi di monitoraggio completi per tutte le proprie commodity;
- solo l’11% delle aziende pubblica i volumi totali delle commodity usate e la loro conformità ai criteri di deforestation-free.
I rischi dell’inazione: crisi climatiche, agricole ed economiche
La posta in gioco è altissima, sottolinea il rapporto. La deforestazione è responsabile dell’11% delle emissioni globali di gas serra. Proteggere le foreste significa proteggere il clima, le risorse idriche, la biodiversità e i diritti delle comunità locali. Il mancato intervento delle imprese espone a rischi sistemici: dagli eventi climatici estremi – incendi, siccità, alluvioni – ai danni economici diretti. Solo negli Stati Uniti, nel 2024, 27 eventi climatici estremi hanno causato perdite superiori a un miliardo di dollari ciascuno.
“Senza un’azione decisa da parte del settore privato – si legge nel report – il rischio di superare tipping points climatici, come la morte regressiva dell’Amazzonia, diventa sempre più concreto”.
Le conseguenze toccano anche la produttività agricola: i raccolti di soia in Amazzonia calano, mentre cacao e caffè raggiungono prezzi record per le scarse rese dovute al clima. Entro il 2030, si stima che le aziende agroalimentari possano perdere fino al 26% del loro valore.